«C’è un desiderio di cambiamento. Nella popolazione si registra un certo malcontento. Si lamentano la corruzione del governo e soprattutto un calo dell’economia nazionale che ha ripercussioni sulla vita della gente»: così il vescovo cattolico Peter Kang, presenta a Vatican Insider l’imminente voto che il 13 aprile vede recarsi alle urne 42 milioni di elettori (l’81,5% della popolazione coreana, che è nel complesso 52 milioni di abitanti) per eleggere il nuovo Parlamento, 300 deputati che avranno un mandato di quattro anni. Il voto è propedeutico alle elezioni presidenziali in programma nel dicembre 2017.
Al partito conservatore Saenuri, attualmente al governo, guidato dal leader Kim Moo-sung, si oppongono altre due formazioni principali: il Partito democratico di Moon Jae-in e il Partito popolare con al vertice Ahn Cheol-soo, una costola staccatasi dai democratici.
«I cristiani propongono una visione ampia del bene comune, secondo una coscienza illuminata dal Vangelo», nota il vescovo cattolico. Ma non tutti i cristiani coreani paiono tenere questo approccio in politica: il forum di Chiese protestanti ed evangeliche si è riunito alla vigilia del voto, invitando gli elettori cristiani (l’insieme dei credenti di tutte le confessioni cristiane si aggira intorno al 20% della popolazione) a «rendere queste elezioni una opportunità per fermare l’islam e gli omosessuali». Il riferimento diretto è a una possibile «legislazione anti-discriminazione» che le forze politiche liberali hanno in agenda e che, secondo i cristiani aiuterebbe «a promuovere i diritti dei gay».
«Un tema come la violenza dell’islam è piuttosto sconosciuto in Corea, la gente non comprende questioni che si vivono in Occidente o in Medio Oriente», spiega Kang, ritenendo questo allarmismo inopportuno.
Il tema centrale, che potrà determinare le elezioni, è invece un altro: il voto cade in una fase di forte attrito nelle relazioni con la Nord Corea: «Se ne sente parlare tutti i giorni, mai come oggi la tensione è stata così alta», nota Kang.
«La presidente Park Geun-hye ha chiuso la zona industriale di Kaesong, al confine, e questa è parsa una decisione imprudente», prosegue il vescovo. «In quell’area, dove imprese del Sud e del Nord lavoravano fianco a fianco, si viveva un “dialogo di fatto” che era comunque un antidoto al conflitto vero. Quella chiusura è un segnale estremamente pericoloso, che non aiuta un percorso di disgelo», spiega.
«Tra vescovi – riferisce – abbiamo discusso di questo punto, ribadendo che l’atteggiamento da seguire è il dialogo, accanto all’assistenza umanitaria senza precondizoni. Soprattutto senza demonizzarsi a vicenda, gli uni gli altri. Urge moderare il linguaggio, perchè il linguaggio violento istiga l’odio e il conflitto».
Un linguaggio piuttosto violento lo si registra proprio tra gruppi, organizzazioni e comunità cristiane di matrice protestante. Da un lato esiste una legittima e pacifica opera di sensibilizzazione promossa dalla «Korean Church network for General elections» che ha stilato una serie di proposte politiche su temi come l’identità nazionale; la riunificazione; la cultura e l’istruzione; l’ambiente. Tali suggerimenti sono stati consegnati ai principali partiti politici.
D’altro canto vi è la fondazione del «Christian Liberation Party», novità assoluta nel panorama nazionale, che non è espressione diretta delle Chiese, e che potrebbe guadagnare, secondo le previsioni, uno o due seggi nell’assise parlamentare, agganciando l’elettorato più radicale e trovando consensi nella battaglia contro l’omosessualità e l’islam.
Come ha spiegato al Korea Times il professore Park Gwang-seo, presidente dell’Istituto coreano per la libertà religiosa di Seul, «i protestanti radicali diffondo l’islamofobia e cercano di influenzare le politiche del governo». Il richiamo di partenza è la crisi del 2007, quando due volontari cristiani coreani furono uccisi in Afghanistan e altri 21 presi in ostaggio, poi liberati da talebani.
Sull’onda di crescenti rivendicazioni anti-islamiche, il Ministero dell’Agricoltura e dell’alimentazione ha annunciato all’inizio del 2016 di aver cancellato il progetto di istituire aree di produzione di cibo «halal» (quello che segue le modalità di preparazione consentite dalla legge islamica, ndr) nelle giurisdizioni di Daegu e Gangwon, in seguito alle proteste dei cristiani radicali. Il piano intendeva attrarre turisti musulmani provenienti dal Sudest asiatico e anche aiutare le aziende locali a esportare prodotti alimentari in Medio Oriente.
Se si pensa che nel Parlamento uscente vi erano cento deputati cristiani protestanti e ottanta cattolici, si comprende quanto tali reazioni abbiano potuto influire sulle decisioni politiche. Il timore è che queste convulsioni radicali-identitarie possano fare presa anche nella nuova Assemblea.