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Hesemann: “In Armenia il Papa è venuto come un amico”

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Vatican Insider - pubblicato il 01/07/16
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Lo scrittore e storico tedesco Michael Hesemann è autore di diversi libri sulla Chiesa e il cristianesimo. Ha scritto, tra gli altri – insieme a Georg Ratzinger – il volume «Mio fratello, il Papa». Nel 2015 ha pubblicato il suo ultimo libro, «Il genocidio armeno», dopo aver studiato più di 3mila pagine dell’Archivio segreto vaticano sul tema, portando alla luce nuove evidenze su questa tragedia a lungo dimenticata. Lo abbiamo incontrato pochi giorni dopo il suo ritorno da Yerevan, in Armenia. 

Hesemann, la settimana scorsa ha seguito la visita di papa Francesco in Armenia. Secondo lei, quali sono stati gli aspetti più significativi del suo viaggio? Che cosa rappresenta questa piccola ma antica terra per il Pontefice?  

«Papa Francesco aveva uno stretto legame con la comunità armena in Argentina quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires, già conosceva la ricca e tragica storia dell’Armenia prima di diventare papa. Durante i primi mesi del suo pontificato ha ricevuto numerosi patriarchi armeni e ha dimostrato che il suo amore e l’affetto per gli armeni è rimasto forte. Egli non solo ha fatto il primo armeno, san Gregorio di Narek, dottore della Chiesa, ma ha anche commemorato le vittime del genocidio armeno con questo termine che è così importante per il popolo armeno, dato che è l’unico che descrive in modo adeguato la dimensione dei crimini commessi dai loro persecutori e assassini. Così gli armeni sapevano che era loro amico già prima del suo arrivo. E ha soddisfatto le loro aspettative nel modo più alto. È venuto come un amico nella più antica nazione cristiana al mondo, come messaggero di pace e riconciliazione, di dialogo ed ecumenismo. Il suo viaggio ha avuto tre dimensioni. In primo luogo la commemorazione dei martiri della più grande persecuzione di cristiani nella storia, poi l’amicizia ecumenica con la Chiesa apostolica armena e la sua riconciliazione con la Chiesa cattolica armena e – ultimo, ma non meno importante – la situazione politica attuale riguardo alla nuova persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, e ai conflitti della Repubblica di Armenia con entrambi i suoi vicini, turchi e azeri, soprattutto dopo la recente escalation del conflitto per l’enclave armena del Nagorno-Karabakh». 

A Yerevan papa Francesco ha parlato ancora una volta del «genocidio» armeno. Non solo. Ha anche sottolineato come «le grandi potenze guardavano dall’altra parte». Un’ammissione simile a quella inclusa nella risoluzione recentemente approvate dal Bundestag tedesco. Come valuta le sue parole?  

«Non è solo in conformità con la recente risoluzione del Bundestag tedesco, che è stata ispirata in modo decisivo dall’affermazione fatta del papa il 12 aprile 2015, ma anche da altre dichiarazioni di papa Francesco, quando, in modo ripetuto, ha criticato la “globalizzazione dell’indifferenza”, l’ignoranza collettiva delle potenze mondiali e dei popoli, e di noi cristiani, circa il destino dei nostri fratelli e sorelle perseguitati in Medio Oriente dove, secondo diversi eminenti politologi, un nuovo genocidio – una continuazione dei massacri del 1915-16 – si svolge proprio di fronte ai nostri occhi. Abbiamo il dovere di non ripetere gli errori del passato, ma di imparare da questi e agire, questa volta». 

Nel suo libro ha studiato migliaia di documenti inediti provenienti da fonti vaticane sul «genocidio» armeno, gettando nuova luce su questo crimine a lungo dimenticato. Quali sono i risultati più importanti del suo lavoro in questo proposito?  

«A causa del negazionismo turco tuttora in corso, è di grande importanza trovare una conferma indipendente del numero presunto di vittime, un milione e mezzo, sostenuto da molti storici autorevoli, ma anche al fatto che lo sterminio degli armeni, il genocidio, sia stato già pianificato anni prima dello scoppio della prima guerra mondiale dagli ideologi dei “Giovani Turchi”, che seguivano una sorta di ideologia protofascista secondo la quale una nazione può essere forte solo se diventa religiosamente ed etnicamente omogenea. Questi ideologi accusavano la multietnicità dell’impero ottomano per il suo declino e lenta dissoluzione svoltasi a partire dalla metà del XIX secolo, e volevano creare un nuova “Turchia per i turchi” sulla base dell’omogeneità etnica e religiosa. E naturalmente, i molti dettagli duri e raccapriccianti riportati da osservatori neutrali – spesso religiosi romano-cattolici e cappellani sul campo – sono così toccanti e impressionanti che diverse dozzine di lettori mi hanno detto di aver letto il mio libro con le lacrime agli occhi». 

Come hanno reagito il Vaticano e papa Benedetto XV in quegli anni alla «prima delle immani catastrofi del secolo scorso», come il Pontefice l’ha chiamata di recente?  

«Dopo che ebbe ricevuto delle relazioni, agì in diversi modi. Protestò apertamente, chiedendo pietà per gli armeni perseguitati in due lettere scritte di suo pugno al sultano; cercò di costruire un’alleanza soprattutto con Austria e Germania – alleate della Turchia nella guerra –, di esercitare pressioni sulla Turchia per fermare le uccisioni. Quando si rese conto che nessuno era in grado o disposto ad aiutare gli armeni, donò soldi per costruire orfanotrofi per i bambini armeni ad Angora (Ankara) e a Costantinopoli». 

Qual è stato il ruolo dell’arcivescovo Angelo Maria Dolci, delegato apostolico a Costantinopoli, nel tentare di prevenire il Metz Yeghern, il «Grande Male», come gli armeni chiamano il loro genocidio?  

«Il Vaticano non aveva relazioni diplomatiche con l’Impero Ottomano, e così non aveva un nunzio e una nunziatura a Costantinopoli, ma solo un delegato apostolico, cui era permesso di usare una stanza come suo ufficio presso l’ambasciata austro-ungarica. Pertanto, i suoi mezzi erano limitati. Scrisse diverse note al gran visir del sultano, che furono semplicemente ignorate. Cercò di ottenere sostegno per i suoi sforzi da parte di altri diplomatici occidentali in Turchia. Alla fine si rese semplicemente conto che nulla avrebbe cambiato le intenzioni dei turchi rispetto a questo punto. Gli mentirono, fecero false promesse e sabotarono il suo lavoro. Per esempio, gli ci vollero sei settimane prima di essere ricevuto dal sultano in udienza per presentare la lettera scritta dal Papa. Altre quattro settimane passarono prima che la lettera ricevesse una risposta». 

Un’ultima domanda. Più di un secolo è passato, ma il «genocidio» armeno non è ancora considerato come un fatto storico in diversi paesi del mondo. Pensa che l’apertura degli Archivi vaticani – che lei ha studiato per molti anni – e le parole di papa Francesco metteranno fine a questa controversia e al negazionismo?  

«Per essere precisi, ho ricevuto il permesso di lavoro presso l’Archivio segreto vaticano nel 2008, otto anni fa. Qualsiasi storico che studi questi documenti – più di 3mila pagine – arriverà alla conclusione che quanto avvenne nel 1915-16 non era solo un genocidio, ma la “Madre di tutti i genocidi”. Ma il motivo per cui alcuni paesi ancora si rifiutano di usare il termine “genocidio” è solo politico, e non può essere risolto con semplici fatti. La Turchia fa di tutto per sopprimere la verità e per evitare una discussione aperta, perché sanno che non fu solo la più grande persecuzione dei cristiani nella storia, ma fu anche il trauma all’origine della Turchia moderna, uno stato che si è formato su questo e altri genocidi: non solo quella degli armeni, ma anche di assiri e aramei, greci e yazidi, aleviti e, oggi, i curdi. Tutti furono vittime di “pulizie etniche”. Non ci sono molte famiglie nell’élite turca moderna che non abbiano tratto profitto dal genocidio e dalla successiva confisca dei beni agli armeni. Anche Erdogan ha costruito il suo palazzo dalle mille stanze sul terreno di una famiglia armena. Questo fatto da solo spiega l’esitazione della Turchia ad avere a che fare con i fatti storici e le loro conseguenze. Ma nessuno può evitare la sua responsabilità per sempre. Se un giorno la Turchia vorrà diventare una nazione rispettata, deve ammettere e chiedere perdono apertamente per i suoi crimini, e cercare almeno di compensare le sue vittime. Si può perdonare solo qualcuno che ammette le sue azioni, non è vero? Così la verità è la conditio sine qua non per la riconciliazione e la pace». 

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