L’intervista sul volo di ritorno dall’Armenia: «C’è qualcosa che non va nell’Unione Europea, ci vuole creatività. Serve una nuova Unione»«Per me l’unità è sempre superiore al conflitto, ma ci sono diversi modi di stare insieme. C’è qualcosa che non va nell’Unione Europea, ci vuole creatività. Serve una nuova Unione». Lo ha detto Francesco dialogando con i giornalisti sul volo di ritorno dall’Armenia. Il Papa ha chiarito il motivo per cui ha usato la parola genocidio, come aveva sempre fatto in passato, e ha spiegato di aver voluto soprattutto sottolineare il fatto che le grandi potenze si girarono dall’altra parte di fronte allo sterminio degli armeni e a quelli commessi da Hitler e da Stalin. Ma Bergoglio ha anche smentito l’idea che possa esistere una «diarchia» papale a motivo della presenza di un Papa emerito.
Come Giovanni Paolo II Lei sembra sostenere l’Unione Europea. È preoccupato che Brexit possa portare alla disintegrazione dell’Europa e anche alla guerra?
«La guerra già c’è in Europa. Poi c’è un’aria di divisione, non solo in Europa. Si ricordi della Catalogna, l’anno scorso della Scozia… Queste divisioni non dico che siano pericolose, ma bisogna studiarle bene e prima di fare un passo verso la divisione, bisogna parlare e cercare soluzioni percorribili. Non ho studiato quali siano i motivi per cui il Regno Unito abbia voluto prendere questa decisione. Ci sono decisioni che si prendono per emanciparsi: per esempio tutti i nostri Paesi latinoamericani o quelli africani, si sono emancipati dalle colonie. Questo è più comprensibile, perché c’è dietro una cultura, un modo di pensare. Invece la secessione di un Paese, pensiamo alla Scozia, è una cosa alla quale i politici, detto senza offendere i Balcani, danno un nome: “balcanizzazione”. Per me sempre l’unità è superiore al conflitto, ma ci sono diversi modi di unità. La fratellanza è migliore delle distanze. I ponti sono migliori dei muri. Tutto questo ci deve far riflettere: un Paese può dire sono nell’Unione Europea, voglio avere certe cose che sono mia cultura. Il passo che la Ue deve dare per ritrovare la forza delle sue radici è un passo di creatività e anche di sana “disunione”, cioè dare più indipendenza e più libertà ai paesi dell’Unione, pensare a un’altra forma di unione. Bisogna essere creativi nei posti di lavoro, nell’economia: in Italia il 40 per cento dai 25 anni in giù non ha lavoro. C’è qualcosa che non va in quell’Unione massiccia, ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca e cerchiamo di ricreare. Creatività e fecondità sono le due parole chiave per l’Unione Europea».
Perché ha deciso di aggiungere la parola «genocidio» nel suo discorso al palazzo presidenziale? Su un tema doloroso come questo, pensa che sia utile per la pace?
«In Argentina quando si parlava di sterminio armeno sempre si usava la parola genocidio e nella cattedrale di Buenos Aires, nel terzo altare a sinistra, abbiamo messo una croce di pietra ricordando il genocidio armeno. Io non conoscevo un’altra parola. Quando arrivo a Roma sento l’altra parola “Grande Male” e mi dicono che genocidio è offensiva. Io sempre ho parlato dei tre genocidi del secolo scorso: quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin. Ce n’è stato un altro in Africa ma nell’orbita delle due grandi guerre ci sono quei tre. Alcuni dicono che non è vero, che non è stato un genocidio. Un legale mi ha detto che è una parola tecnica, che non è sinonimo di sterminio. Dichiarare un genocidio comporta azioni di riparazione. L’anno scorso, quando preparavo il discorso per la celebrazione in San Pietro, ho visto che san Giovanni Paolo II ha usato la parola, e io ho citato tra virgolette ciò che aveva detto. Non è stato ricevuto bene, è stata fatta una dichiarazione del governo turco che ha richiamato in pochi giorni l’ambasciatore ad Ankara, ed è un bravo ambasciatore! È tornato alcuni mesi fa. Tutti hanno diritto alla protesta. Non c’era la parola nel discorso. Ma dopo aver sentito il tono del discorso del presidente armeno, e per il mio uso della parola, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso che avevo detto l’anno scorso. Ma venerdì scorso ho voluto sottolineare un’altra cosa: in questo genocidio, come negli altri due successivi, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. Durante la Seconda Guerra mondiale, alcune potenze avevano la possibilità di bombardare le ferrovie che portavano ad Auschwitz, e non l’hanno fatto. Nel contesto dei tre genocidi si deve fare questa domanda storica: perché non avete fatto qualcosa? Non so se è vero, ma si dice che Hitler quando perseguitava gli ebrei, avesse detto: “Chi si ricorda oggi degli armeni? Facciamo lo stesso con gli ebrei”. Ma la parola genocidio mai io l’ho detta con l’animo offensivo, ma oggettivamente».
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C’è il Papa e c’è il Papa emerito. Hanno fatto discutere le parole del prefetto della Casa pontificia Georg Gänswein e l’idea che è sembrato suggerire, quella di un ministero petrino «condiviso». Ma allora ci sono due Papi?
«C’è stata un’epoca in cui ce n’erano tre! Non ho letto quelle dichiarazioni.
Benedetto XVI è Papa emerito, lui ha detto chiaramente quell’11 febbraio che dava le sue dimissioni a partire dal successivo 28 febbraio. Che si ritirava ad aiutare la Chiesa con la preghiera. Benedetto sta nel monastero, pregando. Sono stato molte volte a trovarlo, ci sentiamo per telefono, l’altro giorno mi ha scritto una letterina facendomi gli auguri per questo viaggio. Ho già detto che è una grazia avere in casa il nonno saggio. Lui per me è il Papa emerito, è il nonno saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Mai dimentico quel discorso fatto ai cardinali il 28 febbraio quando disse: “Tra voi c’è il mio successore: prometto obbedienza a lui”. E lo ha fatto! Poi ho sentito, ma non so se è vero, dicerie su alcuni che sarebbero andati da lui a lamentarsi per il nuovo Papa e li ha cacciati via con il suo stile bavarese. Se è vero, è ben trovato, perché è un uomo di parola, è retto. È il Papa emerito. Ho ringraziato pubblicamente Benedetto per aver aperto la porta ai Papi emeriti. Oggi con questo allungamento della vita si può reggere una Chiesa a una certa età e con gli acciacchi? Lui ha aperto questa porta. Ma c’è un solo Papa, l’altro è emerito. Forse in futuro potranno essercene due o tre, ma sono emeriti. Dopodomani si celebra il 65° anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto. Ci sarà un piccolo atto, con i capi dicastero, perché lui preferisce una cosa piccola, molto modestamente. Io dirò qualche cosa a questo grande uomo di preghiera e di coraggio, che è il Papa emerito, non il “secondo Papa” e che è fedele alla sua parola ed è molto saggio».
Lei ha incoraggio il concilio pan-ortodosso di Creta. Che giudizio ne dà?
«Un giudizio positivo! È stato fatto un passo avanti, non con il cento per cento, ma un passo avanti. Le cose che hanno giustificato la mancata partecipazione di alcune Chiese sono sincere, sono cose che si possono risolvere: i quattro primati che non sono andati volevano fare il concilio un po’ più avanti. Ma il primo passo si fa come si può. Come i bambini, il primo passo lo fanno come i gatti, poi camminano. Il solo fatto che queste Chiese si siano riunite per guardarsi in faccia, pregare insieme e parlare, è positivissimo, io ringrazio il Signore. Al prossimo saranno di più».
Oggi lei ha parlato dei doni condivisi delle Chiese. Visto che andrà in ottobre in Svezia per commemorare il 500° della Riforma, pensa sia il momento giusto non solo per ricordare le ferite da entrambe le parti, ma per riconoscere i doni e forse anche per ritirare la scomunica a Lutero?
«Credo che le intenzioni di Lutero non fossero sbagliate, era un riformatore, forse alcuni metodi non erano giusti, ma in quel tempo, se leggiamo la storia del Pastor – un tedesco luterano che si è convertito e si è fatto cattolico – vediamo che la Chiesa non era proprio un modello da imitare: c’era corruzione, mondanità, attaccamento ai soldi e al potere. E per questo lui ha protestato, era intelligente e ha fatto un passo avanti giustificando il perché lo faceva. Oggi protestanti e cattolici siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante non aveva sbagliato. Lui ha fatto una medicina per la Chiesa, poi questa medicina si è consolidata in uno stato di cose, in una disciplina, in un modo di fare, di credere, e poi c’era Zwingli, Calvino e dietro di loro c’erano i prìncipi, “cuius regio eius religio”. Dobbiamo metterci nella storia di quel tempo, non è facile capire. Poi sono andate avanti le cose, quel documento sulla giustificazione è uno dei più ricchi. Ci sono divisioni, ma dipendono anche dalle Chiese. A Buenos Aires c’erano due chiese luterane e pensavano in modi diversi, anche nella Chiesa luterana non c’è unità. La diversità è quello che forse ci ha fatto tanto male a tutti e oggi cerchiamo la strada per incontrarci dopo 500 anni. Io credo che per prima cosa dobbiamo pregare insieme. Secondo, dobbiamo lavorare per i poveri, i profughi i rifugiati, tanta gente che soffre, e infine che i teologi studino insieme cercando… Questa è una strada lunga. Una volta ho detto scherzando: io so quando sarà il giorno dell’unità piena, il giorno dopo la venuta del Signore. Non sappiamo quando lo Spirito Santo farà questa grazia. Ma intanto dobbiamo lavorare insieme per la pace».
Nei giorni scorsi il cardinale Marx parlando a Dublino ha detto che la Chiesa cattolica deve chieder scusa alla comunità gay per aver marginalizzato queste persone.
«Io ripeto il Catechismo: queste persone non vanno discriminate, devono essere rispettate e accompagnate pastoralmente. Si possono condannare, non per motivi ideologici, ma per motivi di comportamento politico, certe manifestazioni troppo offensive per gli altri. Ma queste cose non c’entrano, il problema è una persona che ha quella condizione, che ha buona volontà e che cerca Dio.
Chi siamo noi per giudicare? Dobbiamo accompagnare bene, secondo quello che dice il Catechismo. Poi ci sono tradizioni in alcuni Paesi e culture che hanno una mentalità diversa su questo problema. Io credo che la Chiesa, o meglio i cristiani perché la Chiesa è santa, non solo devono chiedere scusa come ha detto quel cardinale “marxista”… ma devono chiedere scusa anche ai poveri, alle donne sfruttate, devono chiedere scusa di aver benedetto tante armi, di non aver accompagnato tante famiglie. Io ricordo da bambino la cultura cattolica chiusa di Buenos Aires: non si poteva entrare in casa di divorziati. Sto parlando di ottant’anni fa. La cultura è cambiata e grazie a Dio, come cristiani, dobbiamo chiedere tante scuse, non solo su questo: perdono Signore, è una parola che dimentichiamo. Il prete “padrone” e non il prete padre, il prete che bastona e non il prete che abbraccia e perdona… ma ce ne sono tanti santi preti cappellani negli ospedali e nelle carceri, ma questi non si vedono, perché la santità ha pudore. Invece la spudoratezza è sfacciata e si fa vedere. Tante organizzazioni, con gente buona e gente non tanto buona. Noi cristiani abbiamo anche tante Terese di Calcutta… Non dobbiamo scandalizzarci, questa è la vita della Chiesa. Tutti noi siamo santi perché abbiamo lo Spirito Santo ma siamo tutti peccatori, io per primo».
Qualche settimana fa lei ha parlato di una commissione per studiare la possibilità delle diaconesse. Esiste già? A volte una commissione serve per dimenticarsi del problema.
«C’era un presidente dell’Argentina che diceva di altri presidenti: quando non vuoi risolvere un problema fai una commissione. Io sono stato il primo a essere sorpreso per questa notizia, perché nel dialogo con le superiore religiose mi hanno chiesto: “Abbiamo sentito che nei primi secoli c’erano la diaconesse. Si potrà studiare questo?”. Solo questo hanno chiesto e io ho raccontato che conoscevo un teologo siriano che mi aveva detto: “Sì, c’erano, ma non si sa bene se avessero l’ordinazione. Certamente c’erano e aiutavano in tre cose: nel battesimo delle donne, nelle unzioni pre e post battesimali delle donne. E nel caso in cui una moglie fosse andata a lamentarsi dal vescovo perché il marito la picchiava: il vescovo chiamava la diaconessa per vedere i lividi sul corpo della donna. Il giorno dopo i media hanno scritto: “La Chiesa apre alle diaconesse”. Ho chiesto dei nomi per fare una commissione, e adesso è lì sulla mia scrivania, sto per farla. Ma c’è un’altra cosa: un anno e mezzo fa ho fatto una commissione di donne teologhe che hanno lavorato con il cardinal Rylko, e hanno fatto un buon lavoro. È molto importante il pensiero della donna. Per me la funzione della donna non è così importante come il pensiero della donna, che pensa diversamente dall’uomo e non si può prendere una buona decisione senza consultare delle donne, come facevo a Buenos Aires. Le donne vedono le cose in un’altra luce e la soluzione poi alla fine è sempre stata molto feconda e bella. Vorrei sottolinearlo: è più importante il modo di capire, di pensare, di vedere della donne che la loro funzione. E poi ripeto: la Chiesa è donna, è la Chiesa e non è zitella, è sposa di Gesù Cristo».
Quali sono i suoi sentimenti, lo stato d’animo e le preghiere che fa per il futuro del popolo armeno?
«Auguro per questo popolo la giustizia e la pace, e prego per questo, perché è un popolo coraggioso. Prego perché trovi la giustizia e la pace. So che tanti lavorano per questo, sono stato molto contento la settimana scorsa quando ho visto una fotografia di Putin con i due presidenti armeno e azero: almeno parlano! E anche con la Turchia: il presidente armeno nel discorso di benvenuto ha avuto il coraggio di dire: mettiamoci d’accordo, perdoniamoci e guardiamo al futuro. Questo è un coraggio grande, è un popolo che ha sofferto tanto. E poi l’icona del popolo armeno, che mi è venuta oggi mentre pregavo: una vita di pietra e una tenerezza di madre. Ha portato croci, croci di pietra, ma non ha perso la tenerezza, l’arte, la musica. Un popolo che ha sofferto tanto nella sua storia, soltanto la fede lo ha mantenuto in piedi. È stata la prima nazione cristiana perché il Signore l’ha benedetta, ha avuto vescovi santi, martiri, e nella sua resistenza ha fatto una pelle di pietra ma non ha perso il cuore materno, di una terra che è madre. Io avevo tanti contatti con gli armeni a Buenos Aires, andavo spesso da loro, alle messe. Andavo a cena con loro… e voi fate cene pesanti eh! Per voi, più importante ancora dell’appartenenza alla Chiesa apostolica o a quella cattolica è l’armenità, il vostro essere armeni».
Ieri sera lei ha chiesto ai giovani di essere attori di riconciliazione con la Turchia e l’Azerbaigian, paese che visiterà in ottobre. Che cosa si può fare concretamente per aiutare questo e che cosa dirà?
«In Azerbaigian parlerò agli azeri della verità di ciò che ho visto qui e che sento. Incoraggerò anche loro. Ho incontrato il presidente azero e ho parlato con lui. Dirò anche che non fare la pace per un pezzettino di terra significa qualcosa di oscuro: ma lo dico a tutti, armeni e azeri. Forse non si mettono d’accordo sulle modalità di fare la pace e su questo bisognerà lavorare. Dirò quello che mi viene nel cuore, ma sempre in positivo, cercando soluzioni che siano percorribili e che vadano avanti».
Al memoriale di Yerevan lei ha pregato in silenzio, senza fare discorsi. Farà lo stesso anche quando visiterà, in luglio, Auschwitz e Birkenau?
«Due anni fa a Redipuglia ho fatto lo stesso per commemorare il centenario della Guerra. Con il silenzio. Vorrei andare ad Auschwitz, in quel luogo di orrore senza discorsi, senza tante persone, soltanto le poche necessarie, anche se i giornalisti sicuro che ci saranno. Ma senza salutare questo o quello. Da solo, entrare e pregare che il Signore mi dia la grazia di piangere».