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«Genocidio», quando vuole usare la parola e quando no

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Vatican Insider - pubblicato il 24/06/16
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Appena una settimana fa, dialogando con i giovani di Villa Nazareth, Papa Francesco aveva detto di non amare la parola «genocidio» e si era così espresso: «La tragedia delle comunità cristiane sparse nel mondo: questo è vero. Ma è il destino dei cristiani: la testimonianza – riprendo la parola testimonianza – fino a situazioni difficili. A me non piace, e voglio dirlo chiaramente, quando si parla di un genocidio dei cristiani, per esempio nel Medio Oriente: questo è un riduzionismo. La verità è una persecuzione che porta i cristiani alla fedeltà, alla coerenza nella propria fede. Non facciamo un riduzionismo sociologico di quello che è un mistero della fede: il martirio». Il riferimento era in generale ai cristiani perseguitati e in particolare alla sorte di quelli in Medio Oriente, vittime principalmente dell’Isis ma anche delle guerre in corso da anni.

Questa precisazione aveva fatto pensare che durante il viaggio in Armenia Francesco non avrebbe usato la parola «genocidio», peraltro da lui utilizzata nell’aprile 2015, in occasione della celebrazione in San Pietro in memoria delle vittime del «Grande Male». Allora però il Papa fece sua una citazione contenuta nella dichiarazione congiunta firmata nel 2001 da Giovanni Paolo II e dal Catholicos Karekin II. Come si ricorderà, quell’evento e la menzione della parola «genocidio» aveva provocato una durissima reazione della Turchia e il richiamo ad Ankara dell’ambasciatore accreditato in Vaticano. Quest’anno lo strappo è stato ricucito. Avendo presente quelle reazioni polemiche il gelo diplomatico che ne era seguito, e avendo presente la risposta data a Villa Nazareth meno di una settimana prima del viaggio in Armenia, ci si sarebbe potuti aspettare che Francesco non pronunciasse quella parola.

In effetti i testi preparati dei due discorsi che ha tenuto nella prima giornata del viaggio, sia il saluto nella cattedrale di Etchmiadzin sia quello alle autorità politiche e ai diplomatici, nei passaggi dedicati ai massacri, al «Grande Male», non la contenevano. La parola «genocidio» non compariva. Invece, leggendo il discorso di fronte al presidente armeno e alle autorità politiche, Francesco l’ha aggiunta a braccio. Facendo memoria del «Metz Yeghérn, il “Grande Male”», lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, iniziato nel 1915, ha parlato di «quel tragedia, quel genocidio inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli». «È tanto triste sia in questo armeno come negli altri due – ha aggiunto ancora braccio, riferendosi implicitamente alla Shoah e alle vittime dello stalinismo –  le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte».

Perché la parola «genocidio» piace e talvolta viene aggiunta anche quando compare, ma in altre circostanze non piace? La risposta è contenuta nelle stesse parole di Bergoglio durante l’incontro di Villa Nazareth. Il Papa non ama che si applichi quella parola alle attuali persecuzioni dei cristiani, che sono «martirio». Non la ritiene dunque applicabile alla situazione dei cristiani in Medio Oriente. Ma la considera invece più che adeguata per definire i massacri sistematici e di impressionanti proporzioni come quello avvenuto in Armenia nel 1915, «il primo genocidio del XX secolo», al quale sarebbero seguiti quello della Shoah, lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti, e quello dei milioni di morti provocati dallo stalinismo. Nel caso armeno, pur non mancando certo la componente del martirio cristiano e della persecuzione religiosa, entrarono in gioco anche altre motivazioni etniche e politiche. Dunque la parola «genocidio» è considerata adeguata dal Papa.
 

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