La tragedia del terrore dovrebbe almeno insegnarci che “non ci sono semplici mortali”Quando avevo nove anni e stavo compiendo un viaggio, guardavo le macchine superarci e pensavo come ogni guidatore venga da un posto che conosce solo lui e viaggi verso una destinazione solo a lui nota. Forse sta andando a conoscere il nipotino appena nato, o forse sta solo tornando a casa dopo una giornata faticosa. Forse è innamorato, o deluso, o impaurito. Forse è un grande santo, o ha urgente bisogno di preghiere.
Qualunque cosa immaginassi, ero profondamente consapevole del fatto che ogni macchina conteneva una persona al centro del proprio mondo, con una vita diversa dalla mia, tanto importante per lui come la mia lo è per me.
Una citazione di C.S. Lewis in Il peso della gloria mi ha ricordato quella bambina con il naso schiacciato alla finestra. “Non ci sono persone ordinarie. Non hai mai parlato a un semplice mortale… Le persone con cui scherziamo e lavoriamo, che sposiamo, che insultiamo e sfruttiamo sono immortali”.
Ero, e sono, terribilmente incline agli scrupoli, per cui quando ho iniziato a pregare che Dio benedicesse la gente che passava in macchina sentivo di dover pregare individualmente per ogni guidatore, e mi sono spaventata per l’enormità del compito, per la quantità enorme di vite e persone altamente importanti che mi stavano passando accanto. Non avevo la minima capacità di esprimere individualmente il mio amore per ciascuno.
Ora, sentendo della sparatoria di Orlando, dei circa 50 morti e dei feriti e dei tanti di più che li amano, mi sento come la bambina che guarda le macchine sfrecciare, volendo ma non riuscendo ad amare tutte quelle persone, tutte quelle vite di cui non so nulla. Anche se sto soffrendo e pregando per tutte le persone coinvolte, c’è ancora un’innegabile mancanza di collegamento. Vorrei piangere per le vittime come farei per la mia famiglia, ma non ci riesco.
È naturale mettere la nostra vita, le nostre esperienze e le nostre preoccupazioni al centro dell’universo, con la vita altrui relegata in periferia. Non riusciamo a provare lo stesso dolore delle persone vicine alle vittime, non per via di una mancanza d’amore da parte nostra, ma perché siamo solo creature e abbiamo dei limiti.
Anche se posso essere addolorata, posso essere solo in una macchina per volta, e vivere una vita sola. Ma al di là della preghiera, e devo pregare, c’è ancora qualcosa che devo fare. Se non posso provare le emozioni che proverei se facessero parte della mia famiglia, ho comunque un dovere nei loro confronti. Devo imparare a ricordare la sacralità di ogni persona che incontro. “Non ci sono semplici mortali”.
Voglio dire a quella ragazzina in macchina che no, non può amare ogni individuo come ama i suoi genitori, ma se non dimentica questa sacralità misteriosa allora starà amando l’estraneo che passa davanti al suo finestrino. Sono limitata nel mio amore dalla mia mente, che può amare solo ciò che conosce, ma tenendo presente la preziosità della persona umana so la cosa più importante su ciascuno – che è un figlio di Dio con un’anima immortale e una dignità incommensurabile.
Come posso amare e onorare le vittime della sparatoria di Orlando, se non con le mie lacrime? Trattando gli estranei che entrano ed escono dalla mia vita con il rispetto e l’amore che era dovuto a ogni persona in quel nightclub.
Non c’è bisogno di conoscere i cassieri e i televenditori con cui parlo, le celebrità e i criminali di cui leggo e le tante facce senza nome che mi circondano la cui vita e i cui amori sono noti solo a Dio e a loro stessi per amarli. Pur senza sapere chi sono posso comunque sapere cosa sono: non semplici mortali, ma uomini e donne creati a immagine e somiglianza di Dio, e amati da Lui come Suoi figli. Ricordando questo starò onorando le vittime.
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Anna O’Neil è laureata presso il Thomas More College of Liberal Arts. Ama le mucche, la confessione e il giallo, non necessariamente in quest’ordine. Vive nel Rhode Island con il marito e il figlio, e cerca di ricordare che, come ha detto Chesterton, “se vale la pena fare una cosa vale la pena farla male”.
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]