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Come superare l’isolamento e l’autoaffermazione

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Theresa Aleteia Noble - pubblicato il 14/06/16
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A volte crediamo di poter sfuggire ai peccati dell’umanità adagiandoci su una presunta alterità che ci siamo imposti da soliQualche giorno fa sono andata con mia madre da Braum’s, una gelateria di Tulsa (in Oklahoma). Proprio mentre stavamo entrando noi, un ragazzo con un cappello da baseball e una maglietta arancione sgargiante camminava baldanzoso verso l’uscita. Mi ha guardata con gli occhi sbarrati, è raro vedere delle suore nella Bible belt (regione geografica del Sud degli Stati Uniti in cui vive un’altissima percentuale di protestanti radicali, ndt). Non ero riuscita a capire se la sua reazione di stupore fosse positiva o negativa, ma quando ci siamo incrociati ha urlato, stringendo forte il sacchetto di carta dei gelati: “Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ti ama e ti ha salvato dai tuoi peccati!”

E io ho risposto, ad alta voce: “Amen!”

Nel periodo in cui ho frequentato il liceo, in Oklahoma, ero atea. Non vedevo l’ora di lasciare il mio paese d’origine. Lo ritenevo retrogrado, con la sua pietà, le sue pistole, il suo patriottismo. Ero stufa degli sconosciuti che mi fermavano nei parcheggi per chiedermi se io avessi ricevuto Gesù nel mio cuore. Volevo soltanto fuggire da questa zona bifolca dell’entroterra statunitense, piena di cristiani ignoranti e mal lavati, e trovare casa in qualche città sofisticata e senza dio della costa. Era facile per me vivere in questo modo, vedere il mondo in gruppi e categorie, e identificare me stessa come una perenne estranea.

In una certa misura lo faccio tuttora. Ma adesso, una volta ogni tanto, mi capita di vivere e di vedere le cose in modo diverso. Perché Dio distrugge i miei muri e supera i miei confini. Lui cambia il modo in cui io vedo il mondo. Mi libera dai ghetti che mi sono creata da sola e mi avvicina alle persone con le quali provo a creare delle barriere. Mi aiuta a vedere che io sono gli altri, e loro sono me. È facile per me dire “Sono meglio di lui, sono meglio di lei”. Ma c’è tanto di quel mistero, in queste frasi. Tanti “e se…?“. Tante incertezze. Tante cose che fanno cadere queste frasi, che diventano vuote. Davanti a Dio, l’unica cosa che rende degna qualunque persona è l’immagine di Cristo nella propria anima.

Il monaco trappista Thomas Merton ha avuto una volta un’esperienza mistica tra le affollate strade di un quartiere commerciale di Louisville, in Kentucky. Poi ha scritto, a tal proposito:

“All’improvviso sono stato sopraffatto dalla consapevolezza di amare tutte quelle persone. Io appartenevo a loro, e loro a me. Non potevamo ritenerci estranei gli uni con gli altri, pur non conoscendoci affatto. È stato come svegliarsi da un sogno di separazione e di isolamento, per ritrovarsi in un mondo speciale”.

Penso che tutti noi abbiamo provato, prima o poi, di vivere nel mondo isolato di cui parla Merton. Un’isola di autoaffermazione insieme a un selezionato gruppo di persone. O perlomeno io ho la tentazione costante di isolarmi, di tracciare dei confini e di separarmi dagli altri. Desidero essere speciale, ma nello stesso tempo voglio appartenere agli altri; desidero separarmi, ma contemporaneamente voglio una comunità. Penso che queste siano alcune delle principali tentazioni del nostro mondo moderno.

Queste basilari e contrastanti esigenze umane ci portano a fingere di essere diversi dagli altri. Ci spingono a rifiutarci di approfondire il modo di pensare dell’altro, se noi riteniamo che non valga la pena comprenderle. Cerchiamo invece persone con la nostra stessa mentalità, sospirando sollevati quando ne troviamo una. Restiamo sconvolti dalla dimostrazione di ignoranza degli altri, e mostriamo una sorta di incredulità compiaciuta quando le persone all’infuori del nostro gruppo fanno cose tremende. Quelli come noi pensano di essere diversi dalle persone che si approfittano del prossimo o che fanno altre cose che terribili. Crediamo che in qualche modo siamo diversi, che in qualche modo siamo sfuggiti – contando solo su noi stessi – alla profondità dei peccati dell’umanità.

“Io appartenevo a loro, e loro a me”. 

Quello nella gelateria di Tulsa – circondati da gelati, da gocce di cioccolata e dall’odore dolciastro dei coni di cialda – è stato un momento di unione e fratellanza; le barriere sono state rimosse, e gli estranei sono diventati uniti.

“Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ti ama e ti ha salvato dai tuoi peccati!”

Non ho capito bene se l’uomo che mi è passata di fianco urlando lodi a Gesù stesse provando a evangelizzarmi, a castigarmi o a creare un contatto con me. Così come non ho ben capito se lui abbia pensato che io fossi musulmana, Amish oppure una sorella in Cristo. E non ha alcuna importanza. Comunque sia andata, ho compreso le sue parole. Per un istante ho trovato un punto di contatto con lui, e spero che anche lui ne abbia trovato uno con me.

Gesù è davvero il Figlio di Dio che è morto per i peccati dell’uomo. Per i miei peccati. Per i tuoi peccati. Per i peccati di tutti noi.

Per i peccati di tutti noi.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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