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Qualche appunto sulla Riforma Costituzionale. Votare sì o no?

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 09/06/16
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Non è semplice orientare la scelta su una riforma molto tecnica che sta polarizzando più per questioni emotive che di meritoDomenica 4 dicembre gli italiani sono chiamati a votare sulla riforma costituzionale detta “Renzi-Boschi” che ha come principali effetti sono: l’abolizione del CNEL, una profonda revisione dei poteri del Senato e un cambio importante circa gli istituti di democrazia diretta (referendum e leggi di iniziativa popolare). Sarà un quesito unico e, dopo la recente sentenza del TAR, sarà formulato così:

referendum_quesito

 

Come cambierebbe il Senato?

In caso di vittoria del SI, il nuovo Senato sarà composto da 100 senatori: 5 nominati dal Presidente della Repubblica (non più a vita, ma per 7 anni); e 95 (21 sindaci delle grandi città e 74 consiglieri) scelti con metodo proporzionale dai consigli regionali, che resteranno in carica per la durata del mandato di amministratori locali e quindi è possibile che la sua composizione cambi gradualmente allo scadere delle varie consiliature regionali e non in blocco al cambio di legislatura nazionale come avviene adesso.

L’intreccio tra Italicum e Senato

Sebbene non si voti sulla legge elettorale, essa ha un ruolo nella genesi della Riforma Costituzionale che andremo a votare il prossimo 4 dicembre. Secondo il sito VICE, che ha interpellato il costituzionalista Antonio Agosta, è possibile dire che la riforma “nasca dopo la legge elettorale della Camera, e non soltanto per i tempi parlamentari ma proprio nella costruzione teorica. Ne è quasi un completamento e un rafforzamento.

La riprova di ciò viene dal fatto che il nuovo Senato sarà sprovvisto del potere di sfiduciare il Governo, per “l’esigenza di trasformare il voto per la Camera in un voto decisivo per la formazione della maggioranza e la stabilità del governo.

Ad ogni modo, come spiega Agosta, si è “scelto di mantenere un bicameralismo asimmetrico dal punto di vista politico — la Camera ha più potere del Senato, ma il Senato ha un potere nascosto di interdizione che io in astratto non sottovaluterei per niente“. Prosegue Agosta: “Sarà un Senato che si disinteresserà delle questioni correnti e farà ‘blocco’ su questioni di fondamentale interesse delle Regioni? Oppure deciderà, almeno una parte del Senato, di fare ostruzionismo ‘qualunquista’, pronto a richiamare qualsiasi legge, magari senza avere neanche il tempo di esaminarla?

legge_elettorale_Italicum

Esiste un pericolo democratico con l’abolizione del Senato?

Presumendo che difficilmente qualcuno scenderà in piazza per salvare il CNEL, l’ente più ignorato della storia repubblicana, il nodo centrale di tutta la questione referendaria è se il nuovo Senato e un assetto di bicameralismo non più paritario ma asimmetrico (con la prevalenza della Camera dei Deputati) sia o meno un rischio per la democrazia e la libertà in Italia. E’ difficile dare una risposta senza essere un costituzionalista ma in realtà quasi nessuno lo paventa davvero. Ci sarà un potenziale restringimento della rappresentanza politica per via del famoso “combinato disposto” tra legge elettorale e nuovo Senato, tuttavia è anche vero che il ventennio della Seconda Repubblica non è riuscito a fare nessun passo in avanti sul piano della “governabilità” e questo – pur incompleto – potrebbe essere un passo avanti.

Si può votare SI senza essere “pro Renzi” (e viceversa)?
E’ difficile parlare di una questione che è sia tecnica che politica come la Riforma della Costituzione. E’ difficile perché difficile è capire tutti gli esiti che una riforma del genere può generare nel medio-lungo periodo e soprattutto per la personalizzazione che il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha impresso al dibattito su questo argomento. E’ noto che il personaggio utilizza questo tipo di espedienti “o con me o contro di me” quando vuole ottenere un risultato importante. Questa premessa è necessaria perché tutti noi possiamo essere influenzati dai sentimenti di simpatia o antipatia per questo o quel capo partito o per questo o quel movimento politico o d’opinione, tuttavia per questo passaggio in particolare è bene restare concentrati sul tema: la riforma va bene oppure no? Risolve i problemi o ne crea di nuovi? Difende la democrazia oppure la snatura?

Per scegliere il Governo (per confermare o cacciare Renzi da Palazzo Chigi insomma) basterà aspettare la scadenza naturale della legislatura o – più probabilmente – la primavera del 2017, la scelta sulla Costituzione invece è importante perché trascende gli esiti sulla persona o sul singolo governo perché dovrà regolare la vita politica del paese per il prossimo futuro quindi è su quello che bisogna capire come orientarsi come cittadini e come cattolici: c’è del bene in questa legge?

Per quanto riguarda la sintesi delle modifiche rimandiamo a questo nostro articolo, qui ci limitiamo ad alcune infografiche di sintesi.

Iter legislativo attuale (bicameralismo)

procedimento_bicamerale

Iter legislativo se vince il Sì (monocameralismo)

procedimento_monocamerale

La riforma del Titolo V della Costituzione, cioè il rapporto tra Stato ed enti locali

riforma_titolov

Cosa pensa il mondo cattolico?

Cerchiamo ora di capire come viene valutata questa riforma e perché dal mondo ecclesiale italiano, come queste valutazioni siano nate e a quale visione facciano riferimento. E’ bene ricordare che poiché l’ordinamento civile non è materia di dottrina, la Chiesa non ha una posizione unica, ufficiale e definitiva su questi argomenti e che salvata la ricerca dell’equità e del bene comune le soluzioni tecniche con cui si arriva a perseguirle sono materia libera.

Come ricorda Giorgio Merlo il cattolicesimo democratico ha dalla sua:

Valori e costanti che sono noti alla cultura politica italiana. E cioè, valorizzazione e conservazione del pluralismo politico; centralità della persona e del cittadino nella scelta dei propri rappresentanti; ruolo essenziale dei corpi intermedi; evitare la concentrazione dei poteri attraverso la garanzia dei pesi e dei contrappesi e, soprattutto, salvaguardia del principio democratico riaffermando la centralità del Parlamento e degli organismi di controllo.

E che

da tempo molti di noi sostengono la tesi che questa presenza politica non si può ridurre a “trattare” alcuni temi – i cosiddetti temi “etici” – lasciando il campo libero per tutto il resto. Perché, per citare Mino Martinazzoli, non si può essere “baciapile a contratto” o, come li definiva in modo sprezzante nella prima repubblica Carlo Donat-Cattin e in tutt’altra epoca storica, solo “cattolici professionisti”. I cattolici democratici hanno un ruolo e una funzione politica e culturale se declinano la loro specificita’ in modo organico e coerente e non attraverso una pratica una tantum (Nuova Società, 31 maggio).

Quindi un approccio “cattolico” alla politica, alle sue scelte, anche tecniche, esiste e va perseguito.

Le ragioni del “” si possono riassumere così: il sostanziale passaggio dal bicameralismo al monocameralismo era anche nelle corde dei padri costituenti democristiani, il che snellirebbe il processo che conduce alla formazione delle leggi. Il Senato composto dai rappresentanti degli enti locali è poi un rilancio dell’autonomismo. L’altro aspetto importante è che se la riforma passa, solo la Camera darà la fiducia al Governo, come avviene nella maggior parte dei paesi che non hanno l’elezione diretta del Presidente, e dove solo la Camera bassa vota l’Esecutivo. In tutta Europa è così, anzi in tutto il mondo occidentale sebbene gli USA abbiano un bicameralismo paritario, il Congresso e il Presidente non hanno un rapporto fiduciario. Questo renderebbe più stabili i governi e meno soggetti alle alleanze.

Il “no” si può riassumere nel timore che si accentrino troppi poteri nelle mani dei segretari di partito: governi sostenuti da una sola camera, per lo più appannaggio di un solo partito vincitore delle elezioni, che quindi può decidere di tutto in solitudine. Inoltre, si sostiene che il bicameralismo non verrà affatto superato perché il ping pong delle leggi Camera-Senato rimarrà (saranno 22 le categorie di norme a  restare bicamerali, con produr di approvazione diverse a seconda della materia che trattano). A questo si aggiunge una questione di metodo: quando la Costituzione fu redatta parteciparono tutte le forze politiche realmente rappresentative del popolo italiano, oggi solo una minoranza rafforzata dal premio di maggioranza sta riscrivendo le regole del gioco democratico. Per le leggi di iniziativa popolare, le firme da raccogliere passeranno da 50 a 150 mila. Per i referendum (in cambio di un quorum un po’ ridotto) da 500 a 800 mila.

Vediamole nel dettaglio.

Francesco Occhetta, sacerdote gesuita e politologo di Civiltà Cattolica in un suo recente saggio sulla prestigiosa rivista spiegava come la riforma proposta dal Governo abbia due pregi: affermare che la Carta costituzionale non è un testo sacro, e portare alle sue conseguenze ciò che è già contenuto nella Carta del 1948. E che in una intervista a Il Foglio spiega:

Tra chi parla di tradimento e chi di completamento di quel progetto, l’autore di Civiltà Cattolica sposa questa seconda linea: “E’ uno sviluppo certamente compatibile, che completa alcune parti della Costituzione. I democristiani, comunisti e socialisti della Prima Sottocommissione concepirono la Costituzione come ‘programma’ politico che poteva essere modificato ma non snaturato. I liberali, i piccoli partiti di centro, le destre e il Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) consideravano il testo una ‘cornice’ rigida”. A leggere poi il dibattito della Costituente, si troverebbero cose interessanti e poco note: “Si scopre addirittura che Dossetti era a favore del monocameralismo, per Mortati il Senato avrebbe dovuto garantire gli interessi dei territori, mentre la Camera la rappresentanza politica”. Inoltre, “l’idea dei costituenti di area cattolica e popolare era di considerare due elementi fondamentali della loro tradizione: le autonomie dei territori e i corpi intermedi, intesi come rappresentanza”. E’ secondo queste ispirazioni “già presenti allora”, dice Occhetta, “che vanno considerati l’istituzione di un Senato delle autonomie composto da cento senatori, la riduzione dei tempi per approvare le leggi senza ricorrere al bicameralismo perfetto e il riordino delle competenze tra stato e regioni” (Il Foglio, 20 maggio).

Il costituzionalista Marco Olivetti, docente della Lumsa, su Avvenire insiste sul fatto che il superamento del bicameralismo perfetto – una condizione unica in tutto l’occidente democratico va ricordato – è un fatto assolutamente positivo e che la trasformazione dell’articolo 70 della Costituzione è sì tecnicamente troppo debitore dei regolamenti parlamentari piuttosto che del diritto costituzionale, ma che la differenza di competenze tra le due camere era una necessità non più rinviabile, soprattutto per quanto riguarda il voto di fiducia:

in un contesto nel quale non esistono più i partiti organizzati della Prima Repubblica e il sistema elettorale, non integralmente proporzionale, può generare situazioni assurde, come quella di due Camere con colorazione politica diversa. Del resto ciò è già successo: in forma rimediabile nel 1994, nel 1996 e nel 2006, in forma inizialmente paralizzante dopo le elezioni del 2013. Un assetto da cui si esce solo con una grande coalizione permanente (Avvenire, 22 maggio)

Fin qui il fronte del “”, da parte di studiosi e osservatori che pur non ritenendo la riforma perfetta ne riconoscono il valore positivo di semplificazione normativa e di miglioramento dell’azione di governo del Paese oltre che della sua stabilità. Naturalmente non ci sono affatto solo posizioni “positive” o favorevoli.

Massimo Gandolfini, neurochirurgo e presidente del “Comitato difendiamo i nostri figli” promotore dell’ultimo Family Day valuta così la riforma e il suo combinato disposto con la legge elettorale:

«Non vogliamo che il sistema bicamerale disegnato dalla Costituzione venga rottamato in favore di uno che accentra i poteri nella figura del premier. Tutti i corpi intermedi vengono ignorati, compresa la famiglia e a quel punto è morta la democrazia. Mi spiego: se la riforma costituzionale sostenuta dal governo dovesse passare, in virtù della nuova legge elettorale, tutto il potere si concentrerebbe in un solo partito e in una sola persona, che, con una sola Camera, farebbe approvare in un giorno una legge sull’eutanasia, sulle adozioni per i gay o sulla liberalizzazione delle droghe…» (28 maggio)

Di parere analogo è l’ex sottosegretario Eugenia Roccella:

«Ci sono ragioni di merito e di metodo per dire no alla riforma Boschi. Il combinato disposto fra la riforma e la legge elettorale crea una mancanza assoluta di contrappesi. E abbiamo già visto in Parlamento, e non solo nell’iter del testo sulle unioni civili, i rischi dell’accentramento di potere in un solo partito e nel suo leader: far passare leggi discutibili a colpi di fiducia non è un buon segnale di democrazia. Poi c’è il metodo usato, questione non secondaria: una riforma costituzionale dovrebbe essere approvata cercando la più ampia convergenza possibile. Col governo Letta si era cercato di riprodurre meccanismi simili a quelli usati per la Costituente, ma Renzi non ha seguito quella strada».

Paradossalmente, prosegue Roccella, «invece questa convergenza si sta realizzando spontaneamente sul fronte del “no”, nel quale correnti politiche e di pensiero diverse e lontane fra loro sono accomunate dalla contrarietà alla riforma» (Avvenire, 28 maggio).

Su questo tema, l’unità delle opposizioni e quindi il loro pluralismo, è d’accordo da sinistra il giornalista ed ex parlamentare Raniero La Valle che sul suo blog ha scritto:

Renzi ha messo in rete un sito il cui indirizzo web dice: “basta un Sì”. Ma questo Sì è per fare una caricatura del Senato e una parodia di senatori, per togliere al governo l’incomodo di chiedere la fiducia a due Camere, per rendere più difficile presentare leggi di iniziativa popolare, per indebolire presidente della Repubblica e organi di garanzia, per mettere nelle mani dei prefetti il potere di supremazia dello Stato sulle Regioni, per far decidere a uno solo la dichiarazione dello stato di guerra, e, grazie alla legge elettorale pigliatutto detta Italicum, per dare il potere a un solo partito, e così preparare un trono alla destra.

È per scongiurare questo pericolo che noi abbiamo costituito un movimento dei cattolici del No. E subito c’è stata una polemica perché altri cattolici e la stampa laica hanno detto: che cosa c’entra la fede con la Costituzione? Sostengono che la scelta tra l’uno e l’altro modello costituzionale non si fa come cattolici ma solo come cittadini, altrimenti ci sarebbe una caduta clericale, una regressione all’integrismo. Ma è stato facile rispondere che la laicità non vuol dire sterilizzare o nascondere la fede, che le società hanno anche una causazione ideale, e che l’ordine stabilito e fissato nel diritto ha bisogno di un punto di vista esterno che lo critichi per essere continuamente superato. Fare appello a dei mondi ideali, e anche alla fede, non è integrismo, ed anzi crea un potenziale di laicità perché non accetta che le cose siano semplicemente come sono. C’è un’anima nel diritto. La nostra Costituzione è una cosa laica e profana, ma ciò non toglie che sia impregnata di valori cristiani. Il fatto che essa dichiari la Repubblica fondata sul lavoro, realizza il rovesciamento cristiano dei servi in signori. Il fatto di mettere al centro di tutto la persona umana, vuol dire che nulla può essere anteposto all’uomo, immagine di Dio; dire che la Repubblica rimuove gli ostacoli, anche economici e sociali, che impediscono alla vita di realizzarsi come umana, vuol dire vincolare il potere non solo alla giustizia, ma alla misericordia, e l’aver affermato, all’art. 8, la libertà non solo della Chiesa ma di tutte le confessioni religiose, vuol dire avere anticipato il pluralismo religioso proclamato dal Concilio.

Questo fa si che i cattolici sentano la Costituzione come un patrimonio loro, che ricordino con gratitudine i migliori di loro – De Gasperi, Moro, Dossetti, La Pira, Lazzati, Angela Gotelli – che l’hanno scritta insieme a Togliatti, Nenni, Basso, Calamandrei, Teresa Mattei. Questo fa sì che non l’abbiano mai considerata in contrasto con il Vangelo. Un’antitesi come quella enfatizzata da Renzi – ho giurato sulla Costituzione non sul Vangelo – è una sorpresa per il cattolicesimo italiano.

Tutto ciò spiega perché in questa campagna referendaria i cattolici del No siano scesi in campo per difenderla, per impedire, come hanno scritto nel loro appello, che se ne faccia strumento di una democrazia dimezzata.

Questo però non ha nulla a che fare con una mitizzazione o sacralizzazione del testo costituzionale. La sorpresa invece è che la sacralizzazione è venuta dall’altra parte. Cambiare la Costituzione è presentato come un dovere sacro, sacra è la sua immolazione. Sul Sì alla riforma Renzi ha deciso di giocare il tutto per tutto: pancia a terra per sei mesi, ha detto ai suoi del partito, diecimila banchetti per raccogliere le firme in tutta Italia, un esercito di attivisti che vada di porta in porta; e se il Sì non vince, ripete, me ne vado, rinuncio alla carriera politica; perché non posso andare in TV e dire: non abbiamo vinto, ma i Sì sono arrivati al 45%. Senza il plebiscito, non rimane.

Si sveltisce la decisione perché è più rapido il meccanismo decisionale, quindi da un punto di vista tecnico, oppure perché le decisioni vengono messe in mano a poche persone (o una)? E’ giusto affermare la sacralità della Carta costituzionale e la sua sostanziale intangibilità (pur avendola già più volte modificata dal 1961 in avanti) oppure essendo essa parte del corpo vivo della società ha la necessità di aggiornarsi e l’ennesimo impedimento non è altro che una forzatura? Bisogna trovare una mediazione a tutti i costi o il costo di una mediazione permanente è la stagnazione non solo economica ma anche morale della società? A ciascuno di voi la propria risposta pacata, razionale e lungimirante: buon voto.

AGGIORNATO IL 26 ottobre 2016

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