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E’ vero che l’Apocalisse non parla di Anticristo e fine del mondo?

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 07/06/16
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In realtà è un racconto positivo e gioioso, privo di profezie. Vi spieghiamo come è stato trasformato in violento e malvagioLa venuta dell’anti-Cristo sulla terra? La profezia sulla fine del mondo? Sembrerebbe paradossale…ma non c’è traccia di tutto questo nel libro dell’Apocalisse.

Uno dei massimi esperti del testo di San Giovanni, il professore padre Giancarlo Biguzzi, esperto di Esegesi del Nuovo Testamento, in una conversazione con Aleteia spiega la simbologia dell’Apocalisse, contestualizzando storicamente i messaggi che ci ha voluto trasmettere l’apostolo.

LE LETTERE GIOVANNEE

Intanto l’Anticristo, evidenzia Biguzzi, «non è mai citato nei testi biblici, ma solo dall’autore delle Lettere Giovannee (tre versetti della Prima lettera di Giovanni, 2,18, 2,22 e 4,3 e un versetto della Seconda lettera di Giovanni, 7), e viene utilizzato al plurale, cioè Anticristi. Allude a coloro che negavano la venuta di Cristo nella carne». Eppure quando parliamo di questa figura, l’Anticristo, «vengono in mente, ad esempio, l’affresco “Predica e morte dell’Anticristo”, realizzato intorno al 1499-1502 da Luca Signorelli nel Duomo di Orvieto o immagini di mostri pronti a scatenare la fine del mondo. Ma ciò non corrisponde a quello che dicono, invece, le Sacre Scritture».

L’UOMO DELLE INIQUITA’

Tuttavia gli interpreti dell’Apocalisse e della seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi (2,1-12), hanno affibbiato il collegamento tra questo nome e il nemico degli ultimi tempi, descritto da San Paolo in quella lettera, chiamato “uomo dell’iniquità”. Ecco in questo caso la figura c’è, ma non è chiamata Anticristo.

IL DRAGO

Quanto all’Apocalisse, evidenzia il biblista, «questo testo parla di una triade anti-divina che scimmiotteggia Dio in tutti i suoi aspetti, non di profezie sulla fine del mondo, né tanto meno, come dicevamo di Anticristi in arrivo sulla terra».

La prima di queste tre figure è il drago, chiaramente identificato dall’autore con Satana, poiché tra i titoli con cui etichetta il drago c’è anche Satana. Questi combatte tre battaglie nelle quali viene sconfitto da Dio.

Nella prima battaglia vuole divorare il figlio della “donna vestita di sole”. Così Giovanni presenta questa donna: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto» (Apocalisse 12,1-2). Subito dopo aver presentato la donna, Giovanni introduce l’enorme Drago rosso che cerca di divorare il figlio della donna che è appena nato. Il figlio viene portato in salvo presso il trono di Dio.

Nonostante la sconfitta, il drago ha un tempo in cui gli è permesso di scatenare altre battaglie, e va ad inseguire la madre del bambino, la “donna vestita di sole”, alla quale vengono date due ali d’aquila per volare e fuggire nel deserto, dove trova rifugio dall’assalto del drago.

Nella terza battaglia il drago affronta i discendenti della donna (che simboleggiano il popolo di Dio), ma questo scontro non è terminato (Apocalisse 12, 17-18). Alla fine del capitolo si legge che il drago si arrestò sulla spiaggia del mare. E’ in quel momento che emerge la seconda figura della triade anti-divina, incarnazione del potere politico spropositato, corrotto e corruttore.

MOSTRO DELLA TERRA

La seconda figura (Apocalisse 13,1) aveva dieci diademi (nell’antichità il diadema era simbolo imperiale, come la corona è simbolo regale di un sovrano). Questa bestia, che viene in aiuto al drago, simboleggia dunque un enorme potere politico. E’ come se avesse il controllo di dieci imperi. Satana, cacciato dal cielo sulla terra, si insinua così’ nel potere politico che può essere demoniaco, diabolico.

L’Apocalisse chiama questo essere, la bestia che viene dal mare. Tutto è ambientato nell’attuale Turchia: l’isola di Patmos in cui Giovanni dice di avere avuto visioni, fa parte dell’Anatolia (nome antico della Turchia), e la bestia proviene dal “mare nostrum”, il mar Mediterraneo.

«La bestia incarna l’enorme potere politico di Roma e dei romani – osserva Biguzzi – Non siamo alla fine dei tempi, ma nel mezzo dei tempi».

MOSTRO DEL MARE

E’ qui che emerge la terza figura, la bestia che viene dalla terra (Apocalisse 13,11). La terra in questione è la Turchia, l’antica Provincia romana d’Asia, dove era fortemente radicato il culto del sovrano: sin dai tempi di Alessandro Magno, si era sviluppata la divinizzazione del potere politico e dei suoi discendenti.


«Mentre Roma era prudente nel dare i titoli all’imperatore, costantemente sotto la pressione del Senato – prosegue lo studioso dell’Apocalisse – in Oriente il culto era molto sviluppato: il sovrano era adorato, divinizzato. E questo uomo che era un fervente monoteista non sopportava la divinizzazione del potere di Roma».

Da qui emerge «un messaggio contro lo strapotere politico romano, e contro il culto dell’imperatore nell’Anatolia: il problema dell’Apocalisse infatti è quello dell’idolatria, il messaggio è chiaro: non si adora l’imperatore o un uomo, ma Dio!».

La bestia che viene dalla terra fa propaganda religiosa a favore della bestia che viene dal mare: chi non l’adora viene ucciso, muore di fame. «E’ proprio questo l’emblema della pressione politica, economica, dei falsi profeti, è un’induzione ad adorare il potere dell’imperatore e non quello divino», dice Biguzzi.

BABILONIA E GERUSALEMME

Al termine della battaglia tra Dio e la triade anti-divina, chi si schiera da una parte dovrà partecipare al lamento funebre a tre riprese sulla città di Babilonia (Apocalisse 18 – 19). Questa città non è stata scelta a caso da Giovanni.

I cristiani delle sette Chiese vedevano Babilonia «tutta ammantata di bisso, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro» (18,16), e vedevano affluire verso di essa «carichi d’oro, d’argento e di pietre preziose, di perle […]» (18,12-13). Vedevano la Babilonia che «regna su tutti i re della terra» (17,18), superpotenza militare ed economica che decideva della sorte dei popoli (18,23), di fronte alla quale, presi di ammirazione, si esclamava: «Quale città fu mai somigliante all’immensa città?» (18,18).

«Se da una parte c’è la città che rappresenta lo sfarzo, il male, la corruzione, i falsi profeti, i senza Dio, i poteri politici ed economici che, sconfitti, piangeranno la sua fine – spiega ancora Biguzzi – dall’altro lato c’è la città in cui si schiera il popolo di Dio: Gerusalemme. Una città nuova, bella e perfetta: verso di essa cammina la carovana delle genti che raggiungeranno l’approdo sicuro, e li’ adoreranno Dio nei secoli dei secoli. Il finale è positivo, gioioso! (Apocalisse 21 – 22). Ecco perché l’Apocalisse si può anche chiamare il libro delle due città».

LA “DISTORSIONE” DEL LIBRO

Ora come si può notare non ci sono riferimenti né ad Anticristo, né alla fine del mondo. Essendo un libro polemico e aggressivo, ricco di immagini forti, è stato utilizzato con effetti incredibili, adoperato in senso negativo puntualmente per colpire un nemico. Lo stesso nome Apocalisse, (letteralmente dal greco “togliere il velo”), vuol dire rivelazione. Il mondo anglofono lo traduce non a caso come revelation.

«Se nei primi secoli cristiani l’Apocalisse ispirò l’acuta attesa della beatitudine che Dio avrebbe dato nel millennio – è il pensiero di Biguzzi già evidenziato sulla rivista “Parola, spirito e vita” (edizioni Dehoniane, 2015) – nel Medioevo essa mise nell’attesa della paurosa fine del mondo, anche se pur sempre proveniente da Dio. Poi, senza che Dio scomparisse dall’orizzonte, l’influente teologo Gioacchino da Fiore, nel secolo dodicesimo, mise l’accento sulla battaglia, interna alla storia, tra forze del bene e forze del male, e i polemisti delle controversie fra cattolici e protestanti sulla battaglia fraterna inter-cristiana».

Quindi, prosegue il biblista, «intendendo anche il settenario dei sigilli (Apocalisse 5) come settenario di flagelli, l’esegesi moderna e contemporanea ha mal interpretato quello che è in realtà un settenario di rivelazione (Ap 1,1) , in quanto Cristo Agnello apre un rotolo sigillato con sette sigilli e ne fa conoscere il contenuto».

Il risultato cui ha condotto la riflessione lunga due millenni è che il libro di Giovanni «oggi è volgarizzato, senza più prospettive trascendenti, in chiave di catastrofe finale, da cui si può tutt’al più cercare scampo». Ed ha spalancato la strada a una filmografia (e a una cultura) in cui l’Apocalisse si inscrive ormai solo in «un’antropologia disperata e tetra» (persino Obama che ha un’automobile chiamata la “bestia”…da taluni è etichettato come l’Anticristo.

LA STORIA RILETTA DA GIOVANNI

Insomma nell’Apocalisse Giovanni ha voluto lanciare un messaggio molto diverso (e più raffinato) dalla fine del mondo. L’Apocalisse è una lettura della storia. Una lettura che Biguzzi definisce «“in spirito”, cioè nello spirito profetico, perché il mistero Dio lo rivela ai profeti (10,7). “In spirito (en pneumati)” Giovanni dice di avere veduto lo stato spirituale delle sette Chiese nella cristofania di Patmos (1,10), e en pneumati dice di essere salito al cielo per guardare dalle altezze di Dio lo scontro tra Bene e Male che si consuma nella storia (4,2). E infine dice di avere intravisto i due possibili esiti verso cui la storia muove (17,3; 21,10): dal deserto, quale luogo di corruzione e di impurità, ha visto Babilonia, la Grande Prostituta, e il fumo del suo incendio salire all’orizzonte, mentre dal monte alto e sublime ha visto la Gerusalemme nuova e santa, la sposa dell’Agnello, dove non c’è bisogno di tempio, perché Dio in essa è tutto. Vedendo la storia “in spirito”, Giovanni vedeva dunque la storia dall’alto, con gli occhi di Dio».

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