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Francesco e lo sguardo di Magellano

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Vatican Insider - pubblicato il 26/05/16
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«L’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa». Questo diceva, a mo’ di esempio, Papa Francesco nell’intervista con il giornale delle Villas Miserias, «Carcova News». È la chiave di lettura che padre Antonio Spadaro riprende per commentare l’importante discorso tenuto dal Pontefice lo scorso 6 gennaio, di fronte al gotha delle istituzioni europee, in occasione del conferimento del premio Carlo Magno.

Da Lampedusa a Strasburgo, lo sguardo europeo di Bergoglio
«Qual è la visione che il Papa non europeo ha dell’Europa? – si domanda Spadaro – Lo sguardo di Bergoglio è uno sguardo europeo, perché le sue radici sono in Piemonte e la sua formazione è radicalmente anche europea. Egli stesso, nel discorso, si riconosce figlio “che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede”. E tuttavia egli è argentino e la sua esperienza ecclesiale è latinoamericana. L’itinerario dei suoi viaggi nel continente europeo è partito da Lampedusa — “porta d’Europa”, e dunque meta di un viaggio più europeo che italiano — e dall’Albania, terra d’Europa che non fa ancora parte dell’Unione Europea e a maggioranza islamica. Da queste “periferie” il Papa è come rimbalzato brevemente al “centro”, cioè a Strasburgo, per visitare le Istituzioni europee, e poi proseguire sempre ai confini: Turchia, Bosnia-Erzegovina e Lesbo, altra tragica “porta d’Europa”. A ottobre sarà a Lund, in Svezia. La misericordia per Francesco – osserva il direttore di “Civiltà Cattolica ” – si delinea politicamente in libertà di movimento.

L’Europa vista da Magellano
Per comprendere questa affermazione al di là di ogni facile slogan, va riletta l’intervista rilasciata nel marzo 2015 a «La Cárcova News», rivista popolare prodotta in una villa miseria argentina: «Quando parlo di periferia, parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa».

La circumnavigazione di Francesco
«Lo sguardo di Bergoglio è, dunque – scrive padre Spadaro – quello di Magellano, e vuole continuare a esserlo. Francesco vuole conoscere l’Europa partendo da Roma e circumnavigando il continente a partire da sud, proseguendo ad est e poi — lo farà a ottobre — spingendosi nel profondo nord, in Svezia. Non c’è stata, al momento, alcuna puntata ad ovest, verso l’Occidente». Nell’intervista citata il Papa prosegue: «La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Ecco il motivo del suo «tragitto esterno, della sua circumnavigazione ai bordi. Questo è ciò che Francesco cerca tra Lampedusa, Tirana, Lesbo e Lund: l’”anima” europea. E l’anima non è solo il “centro”, ma il “cuore” pulsante e vivo. Francesco – osserva ancora Spadaro – è come un medico che cerca di capire se il cuore funziona, osservando se e come il sangue affluisce dovunque, e indagando anche la circolazione periferica. Un altro termine per dire questa visione è “multipolarità”».

La sfida della multipolarità
Francesco lo aveva spiegato chiaramente nel suo discorso al Consiglio d’Europa il 25 novembre 2014: l’Europa non può essere compresa in termini di pochi «centri» polari, perché «le tensioni — tanto quelle che costruiscono quanto quelle che disgregano — si verificano tra molteplici poli culturali, religiosi e politici». La multipolarità comporta «la sfida di un’armonia costruttiva, libera da egemonie». Quindi bisogna pensare l’Europa in maniera poliedrica nelle sue relazioni e tensioni. «Quella di Francesco è una geopolitica europea non deterministica – si legge nell’articolo di “Civiltà Cattolica” – consapevole del fatto che la redistribuzione della potenza fra attori principali non rende ragione delle dinamiche profonde del Continente».

Ue, progetto work in progress
L’Europa non è dunque una «cosa», ma un «processo» tuttora in atto all’interno di «un mondo più complesso e fortemente in movimento». I suoi Padri fondatori hanno «architettato» un «illuminato progetto», che è sempre work in progress. Occorre dunque verificare non se la casa regge, ma se la sua realizzazione segue quel sapiente progetto. Ecco il parere del Papa: «Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari». Perché questo è accaduto? Perché — afferma il Papa, coerente con il suo approccio alla realtà — l’Europa è «tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi».

Se l’Europa considera se stessa come uno «spazio», osserva Spadaro, «allora prima o poi verrà — ed è già venuto — il momento della paura, del timore che lo spazio sia invaso. Lo spazio va innanzitutto difeso. Se invece l’Europa è da considerarsi come un processo in fieri, allora si comprende come esso metta in movimento energie, accettando le sfide della storia. Allora anche difficoltà e contraddizioni “possono diventare promotrici potenti di unità”».

Il compito della Chiesa
Dopo aver ripercorso le citazioni che ha fatto il Papa il 6 maggio valorizzando spunti e discorsi dei padri fondatori dell’Europa, l’articolo di «Civiltà Cattolica» si conclude con una riflessione sul compito della Chiesa di fronte alla fine dell’idea carolingia. Nel suo intervento sull’Europa Francesco ha infatti citato un autore per lui importante, il grande teologo gesuita Erich Przywara, maestro di Hans Urs von Balthasar. «Nella sua magnifica opera “L’idea di Europa” – ha detto il Papa – ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni».

Fine dell’esperimento di Carlo Magno
Citando “L’idea di Europa” che egli ben conosce – sottolinea Spadaro – Francesco rivela la sua convinzione, che era quella del teologo gesuita: siamo alla fine dell’epoca costantiniana e dell’esperimento di Carlo Magno. È interessante, dunque, che il Papa citi Przywara proprio in questo contesto carolingio. La “cristianità”, cioè quel processo avviato con Costantino in cui si attua un legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa, si va concludendo. Przywara — insieme allo storico austriaco Friedrich Heer — è convinto che l’Europa sia nata e cresciuta in rapporto e in contrapposizione con il Sacrum imperium, che ha le proprie radici nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario».

Riprendere i cammini dei santi Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux
Questo processo viene valutato da Heer come «la possibilità per la Chiesa di riprendere i cammini evangelici avviati da Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux, rompendo la barriera che la separava dai poveri ai quali il cristianesimo — nella congiuntura teologica politica delle varie forme della cristianità — è sempre apparso come l’ideologia — e la garanzia — politica dei ceti dominanti». Per Heer, ricorda Spadaro, la fine della cristianità non significa affatto il tramonto dell’Occidente, «ma piuttosto porta in sé una risorsa teologica decisiva in quanto la missione di Carlo Magno è alla fine. Cristo stesso riprende l’opera di conversione. Cade il muro che quasi fino al giorno d’oggi ha impedito al Vangelo di raggiungere gli strati più profondi della coscienza, di penetrare fino al centro dell’anima. Si rifiuta così radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del “partito”».

No al colonialismo basato sulle «radici cristiane»
Il Papa ha confermato questa visione citando Przywara pochi giorni dopo aver ricevuto il premio, il 9 maggio, nell’intervista al quotidiano francese La Croix. Interrogato sul perché egli parli di «identità europea» e non usi l’espressione «radici cristiane dell’Europa», il Pontefice risponde: «Bisogna parlare di radici al plurale perché ce ne sono tante. In tal senso, quando sento parlare delle radici cristiane
dell’Europa, a volte temo il tono, che può essere trionfalista o vendicativo. Allora diventa colonialismo. Giovanni Paolo II ne parlava con un tono tranquillo. L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio. Erich Przywara… ce lo insegna: l’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».

Nasce qui l’idea della Chiesa come «ospedale da campo», conclude Spadaro. E difatti Francesco prosegue nel suo discorso affermando che «alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa». Come? Annunciando il Vangelo, che «si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante».
 

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