«La mia opinione riflette quella dei sacerdoti che vivono in Cina. Essi distinguono tra la politica religiosa del Governo e la fede cristiana. Il Governo esige che la Chiesa cattolica in Cina sia “indipendente”. Noi riteniamo che l’indipendenza richiesta debba essere soltanto quella politica ed economica, ma non quella religiosa. Osserviamo allora le norme dettate dalla politica religiosa del Governo come qualunque altra legge del nostro Paese, cioè per quanto la nostra coscienza e la nostra fede lo consentono. Non credo che sarà difficile in futuro che la Santa Sede e il Governo cinese trovino un accordo su questo nostro atteggiamento». Così scrive padre Joseph Shih, gesuita che vive a Shanghai, in un articolo intitolato «La Chiesa cattolica in Cina», pubblicato sull’ultimo numero della «Civiltà Cattolica», proprio nei giorni in cui vengono rese note indiscrezioni riguardanti l’intensificarsi degli incontri fra le delegazioni vaticana e cinese. Un percorso lento e non privo di ostacoli, anche se Oltretevere si nutre la speranza che possa portare finalmente alla normalizzazione delle relazioni e dunque a un accordo condiviso sulla nomina dei vescovi.
Il controllo sulle religioni
Nell’articolo di padre Shih si legge che per comprendere la Chiesa cattolica in Cina, dovremmo tener conto di tre avvertimenti: «Non essere troppo letterali nella comprensione delle dichiarazioni delle Autorità cinesi, non fidarci troppo delle notizie diffuse dai media stranieri, e conoscere meglio la fede dei cattolici che vivono in Cina». Il governo di Pechino impone a tutte le cinque grandi religioni «determinati organi di controllo, che le amministrano e le dirigono. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica essi sono, a livello nazionale, yihui ytuan (Associazione patriottica e Conferenza episcopale) e, a livello locale, lianghui (Associazione patriottica e Commissione per gli affari religiosi)». In realtà – spiega l’autore – molti dei vescovi e sacerdoti della Chiesa cattolica cinese non accettano questa imposizione. «Il governo lo sa, conosce quei vescovi e sacerdoti e nega loro ogni ruolo nella Chiesa cattolica cinese, considerandoli piuttosto come capi delle comunità di una religione popolare non riconosciuta ufficialmente; tuttavia concede loro di rimanere nel Paese, purché non nuocciano all’unità nazionale e alla pace sociale».
Non ci sono due Chiese
In secondo luogo, insiste il padre gesuita, «non ci si deve fidare troppo delle notizie diffuse dai media stranieri. Essi generalmente accettano le affermazioni del Governo cinese, ma le esprimono con termini più familiari al mondo cristiano, chiamando “Chiesa ufficiale” la parte della Chiesa cattolica in Cina che è riconosciuta dal Governo, e “Chiesa clandestina” quella che non è riconosciuta da esso. Così, secondo le notizie diffuse da questi media, sembra che in Cina esistano addirittura due Chiese cattoliche: una “fedele”, che ubbidisce al Papa; e l’altra “patriottica”, che ubbidisce al Governo cinese».
I vescovi sono in comunione con il Papa
Infine, si deve conoscere meglio la fede dei cattolici che vivono in Cina. «Essa – spiega l’articolo di “Civiltà Cattolica” – è espressa dal catechismo che i fedeli imparano; dalla messa alla quale partecipano; e dai vescovi ai quali ubbidiscono. Il catechismo che i fedeli imparano è lo stesso che era in uso in tutte le diocesi cinesi prima della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La messa alla quale partecipano è celebrata secondo il Messale romano, già adottato nelle diocesi di Taiwan e di Hong Kong. I vescovi ai quali ubbidiscono, o sono stati nominati dal Papa o sono stati accettati da lui».
Fedeli in aumento
I cattolici che vivono in Cina, «in genere sono consapevoli della presenza, nelle chiese che frequentano, degli organi di controllo, come l’Associazione patriottica». La considerano come «un’ingerenza indebita del Governo» e la «tollerano nella misura in cui non nuoce all’integrità della loro fede cattolica». Padre Shih spiega quindi che anche se il governo di Pechino è «deciso a controllare e a dirigere la Chiesa cattolica nel Paese», la vita della Chiesa cattolica in Cina «non corrisponde in realtà ai desideri del Governo». Il gesuita osserva che nella Chiesa in Shanghai, ad esempio, «il numero dei fedeli che frequentano le chiese continua ad aumentare. Ci sono anche molti convertiti, tra i quali diversi giovani intellettuali. Ciò avviene non perché questi fatti siano determinati o controllati dal Governo, ma perché nascono e sono vissuti all’interno della Chiesa stessa».
La Chiesa è ben distinta dal governo
È chiaro quindi che, «nonostante il severo controllo della Chiesa da parte delle autorità, Chiesa e Governo rimangono in Cina due entità ben distinte tra loro e non si confondono. Perciò non mi sembra corretto il fatto che, quando si verifica qualcosa di negativo riguardo alla Chiesa, si accusi subito il Governo cinese».
La «formazione» del clero voluta dalle autorità
Padre Shih rivela quindi un aneddoto riguardante il fatto che talvolta i sacerdoti vengono convocati dalle autorità governative per una loro «formazione». «Qualcuno parla di “lavaggio del cervello”, ma i sacerdoti non hanno paura di andare a questi incontri e sono tranquilli quando tornano. Un giorno – racconta – ho notato in refettorio un libro, intitolato Letture scelte delle regole della politica religiosa, e sulla copertina c’era indicato il nome del proprietario, un sacerdote. Gli ho chiesto di prestarmelo, cosa che egli ha fatto volentieri, aggiungendo: “Prendilo pure. Questo libro mi è servito durante la formazione; ora non mi serve più. Ci sono tutte le parole che ci dicono”».
L’interpretazione «socialista» dei dogmi
«Un giorno, vedendo la televisione – continua il gesuita – sono stato attirato da una notizia, perché era annunciata da una persona che conoscevo. Essa parlava di “cinque progressi e cinque cambiamenti nella Chiesa cristiana” e riferiva di un corso di formazione del personale religioso nella provincia di Sichuan, nel quale si insegnava anche una nuova interpretazione dei dogmi cristiani. Questa nuova interpretazione, secondo l’annunciatore, era necessaria affinché la Chiesa cristiana potesse adattarsi alla società socialista cinese».
I preti non condividono quei contenuti
«Dopo aver visto il libro nel refettorio e aver ascoltato la notizia alla televisione – spiega l’articolista di “Civiltà Cattolica” – ho capito qual è stato il comportamento dei miei confratelli di Shanghai: essi hanno accettato la convocazione del Governo e sono andati ai corsi di formazione senza paura, perché della “formazione” hanno un concetto diverso da quello del Governo. Per quest’ultimo, essa è un mezzo per istruire i sacerdoti sulla prassi della sua politica religiosa. Il Governo vuole che la Chiesa cristiana in Cina si conformi alla società socialista. Perciò la Chiesa deve cambiare, modificando anche l’interpretazione dei dogmi. Per i sacerdoti, invece, la formazione è, sì, un obbligo da cui non si possono esimere, ma un obbligo di cui essi non condividono lo scopo e i contenuti».
Situazione non ideale, ma…
«Chiesa e Governo, dunque, rimangono in Cina due entità distinte – aggiunge padre Joseph Shih -. Il loro rapporto è delicato e a volte confuso, e non si lascia definire con categorie chiare, come invece si desidererebbe spesso in Occidente». «È vero che la situazione della Chiesa cattolica in Cina non è ideale – conclude il gesuita – e che non tutte le decisioni della Santa Sede che la riguardavano hanno incontrato il consenso dei fedeli in Cina. Ma chi parla della Chiesa in Cina deve considerare le circostanze reali nelle quali essa vive, e sbaglierebbe se la criticasse indicandone soltanto i difetti. Ci sembra che vada deplorato soprattutto chi cerca di insinuare che la Chiesa in Cina non sia leale, inducendo così i fedeli a perdere la fiducia nella Chiesa stessa».