I rifugiati raccontano: “Riempiono le bombole per il gas con chiodi e pallottole per fare più male. Ma la nostra vita è nelle mani di Dio”“Come faccio a spiegarti? Qui c’è un genocidio”. Lacrime di impotenza si affacciano dagli occhi di un giovane siriano. Lui è riuscito ad andarsene in tempo, insieme alla sua famiglia. Hanno vissuto due anni in Libano, e nei giorni scorsi sono arrivati in Italia come rifugiati, grazie ai “corridoi umanitari” promossi dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Federazione delle Chiese evangeliche e alla Chiesa Valdese. “Abbiamo perso tutto, abbiamo perso la nostra casa, il nostro futuro. Abbiamo perso le persone più care, tutto quello che abbiamo costruito, per cui abbiamo lottato, sudato e faticato nella nostra vita”.
Non solo derubati dei loro beni, ma calpestati nella loro dignità. Le loro case sono sfregiate, come il loro sorriso. I muri sono venuti giù, “non c’è rimasta neanche una pietra sopra l’altra”. E loro si sono sentiti sprofondare allo stesso modo. “Lavoravo come metalmeccanico. Non è rimasto più niente”. La fabbrica non c’è più. Ma la fatica più grande è dover chiedere aiuto: “Non ho mai chiesto i soldi a mio padre, ora altri mi devono mantenere ed è molto difficile da accettare”.
I giovani siriani parlano tutti inglese, hanno studiato. In Libano riuscivano a trovare lavoro. Ma la situazione si è fatta sempre più critica e da oltre un anno non sono più stati concessi permessi. E vivere da siriano in Libano non è facile. I rapporti tra i due popoli risentono ancora di una storia turbolenta. “Non vali niente”.
In Siria, prima della guerra “cristiani e musulmani vivevano insieme senza problemi, avevano tutto. Adesso è molto più difficile. Forse torneremo un giorno, quando tutto sarà finito, ma sarà difficile pensare di tornare lì, “non abbiamo più niente, non sai se puoi fidarti dei tuoi vicini”.
Nei villaggi intorno ad Al-Hasakah, da cui proviene una famiglia di profughi, l’Isis ha attaccato e ha preso molti ostaggi, soprattutto tra i cristiani. “Alcuni sono stati prigionieri per un anno senza che si sapesse niente. All’inizio minacciavano perché volevano il riscatto e ne hanno uccisi sei. Tra di loro c’era anche un mio amico medico”.
Aleppo è sotto assedio da tre anni. I suoi abitanti sono rimasti per mesi senza energia elettrica, senza acqua e senza cibo. “Da quando sono arrivati l’Isis e i ribelli non si trova neanche pane…” il costo è salito di oltre 20 volte. “Hanno colpito mia casa con tre-quattro missili. Esci di casa e non sai se torni”.
La guerra è senza più regole: “riempiono le bombole per il gas con chiodi, pallottole, piombini, per fare più male. Le usano come bombe, le lanciano contro le case. Tanta gente è morta o è rimasta ferita in questo modo”.
“Un giorno è caduto un missile sotto casa mia. Ho soccorso una persona che aveva le gambe tranciate, l’ho portato all’ospedale di corsa. Poi mi sono accorto che mi ero dimenticato dei miei genitori allora li ho chiamati per sapere se stavano bene. Ecco, arriva un momento che ti scordi addirittura della tua vita”.
Le domande si rincorrono: Che colpa ha un bambino piccolo ammazzato da un cecchino? Che colpa ha la gente? Quando vedi che una persona apre il cuore di qualcuno e lo mangia, cosa deve succedere di più?”
Alcuni di questi rifugiati sono armeni. E nella loro mente riaffiorano i racconti dei nonni o dei bisnonni scampati al genocidio nel 1915. “Cento anni fa sono scappati, i turchi li hanno sgozzati e ammazzati; adesso l’Isis sta facendo la stessa cosa con noi. Cristiani e musulmani”.
Il “Grande Male” lo chiamano gli armeni, Metz Yeghern. Ma una luce illumina questa oscurità: “Ringraziamo Dio per essere qui, mettiamo vita nelle mani del Signore e ringraziamo perché abbiamo ancora le forze per lavorare. La cosa più forte che abbiamo è la fede. Non credo tanto nella fortuna, credo in Dio”.