Si può trovare persino in una vita piena di amarezzaQual è la cosa più urgente e onesta da fare per un cristiano, ridere o piangere? Per noi è facile associare il ridere con la vita cristiana. Parliamo con ammirazione di quelle anime allegre che “hanno la gioia del Signore”. Durante la stagione pasquale i prefazi delle preghiere eucaristiche recitano che i cristiani sono nella “pienezza della gioia pasquale”. Nello stesso tempo parliamo del “dono delle lacrime” e nel Salve Regina ci descriviamo come “gementi e piangenti in questa valle di lacrime”. Eppure San Francesco di Sales ha detto che un santo triste è un triste santo. Quindi, quale delle due? Qual è la cosa più adatta a un cristiano, ridere o piangere?
Questa domanda è tornata a tormentarmi da quando ho, recentemente, letto una traduzione del brillante romanzo russo Laurus, di Eugene Vodolazkin. Queste sono le righe che per settimane sono state ricorrenti nei miei pensieri: “Quando vede Arseny pregare di notte, la nuova badessa dice: durante il giorno, il servo di Dio … ride del mondo, di notte piange per quello stesso mondo“.
Come è possibile? Come si può conciliare questo ridere e addolorarsi in un’anima pia? Sembrerebbe abbastanza facile comprendere un cristiano che è rattristato. Non bisogna cercare troppo a fondo per trovare sofferenza in questo mondo. Ogni umano che ha raggiunto l’età della ragione può testimoniare la presenza della malattia, dell’ingiustizia, del peccato e della morte. Sia attorno a lui che dentro di lui. Un cristiano maturo riesce a piangere di vergogna a causa dei suoi propri peccati di negligenza e malizia; lo stesso cristiano può notare con orrore come le generazioni siano diventate degli sciatti amministratori dei doni e delle grazie di Dio. Un’anima davvero pia sa soffrire il dolore della compassione e contempla il cuore trafitto del nostro Signore ferito.
Eppure S.Tommaso d’Aquino ha insistito sul fatto che la gioia si può trovare persino in presenza del dolore, a condizione che l’anima mantenga in se stessa la verità di Dio e la felicità del cielo. Forse il cristiano maturo può ridere perché Dio ama ardentemente, teneramente e ostinatamente delle creature così assurde, quali siamo noi. Assurde perché aspiriamo a tali altezze e cadiamo nelle sciocchezze. Considerate questi versi dell’Amleto di Shakespeare:
Qual capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle sue facoltà! Quale espressione ammirabile e commovente nel suo volto, nel suo gesto! Un angelo allorchè opera! Un Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! Re degli animali!…. È nulla meno che è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi alletta; no, nè la donna tampoco…
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Dovremmo essere motivo di risate, perché noi umani ibridi – incrocio bizzarro di carne mortale e anima immortale – siamo in grado di prenderci così sul serio. Le nostre pretese sono elevate persino quando mangiamo, dormiamo, defechiamo e copuliamo come ogni altro mammifero. Dovremmo essere commiserati perché infliggiamo così tanta sofferenza evitabile su noi stessi e sugli altri, con la nostra avida ricerca di realizzare le nostre fantasie terrene evitando di incrociare i nostri occhi con la chiamata del cielo. Gira e rigira, si finisce per meravigliarci della grandezza dell’uomo e per rimpiangere i suoi fallimenti. Quando finirà tutto questo?
Quando ero un giovane studente mi è stato insegnato che le opere teatrali venivano classificate come commedie o tragedie in base al fatto che la storia avesse o meno un lieto fine. Le storie con un finale positivo erano commedie, a prescindere da cosa fosse accaduto prima della conclusione; le tragedie invece erano quelle storie dal finale negativo, a prescindere dall’amore e della risate vissute. Considerando questo, se Shakespeare avesse modificato il suo Romeo e Giulietta soltanto di alcuni paragrafi, quell’opera sarebbe stata classificata come commedia. Dobbiamo quindi chiederci: la storia umana è una commedia o una tragedia? La risata dell’uomo è una mera distrazione dal finale e definitivo disastro umano? O piangere è forse un piccolo incidente sulla strada che porta a un inevitabile lieto fine?
Non penso che domande come queste possano condurre a risposte nette. Il poeta francese Charles Peguy ha scritto: “La vita consiste soltanto di una tragedia, in definitiva: non essere stato un santo”.
Dico questo. Che i buoni cristiani piangano, come Dio piange, perché i propri figli ribelli si rifiutano di diventare santi. E che i buoni cristiani sappiano ridere come i santi ridono, meravigliandosi della scelta di Dio di rendere noi umani la corona della creazione, con corpi ed anime creati per la felicità del cielo. Nell’oscurità e nella solitudine, intercediamo con afflizione per un mondo creato per la redenzione e che ha scelto la strada della perdizione. Nella luce e nella società, adoriamo Dio con allegria, perché ha reso queste creature imperfette strumenti del suo perfetto amore.
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Padre Robert McTeigue, S.J. è membro della provincia del Maryland della Compagnia di Gesù. Docente di Filosofia e Teologia, ha una lunga esperienza in direzione spirituale, ministero di ritiri e formazione religiosa. Insegna Filosofia presso la Ave Maria University ad Ave Maria, Florida, ed è noto per le sue lezioni di Retorica ed Etica Medica.
[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]