Il discorso tra San Pietro e l’Alighieri in Paradiso è una lezione di ecclesiologia valida ancora oggi. Questa riflessione di Don Andrea Lonardo è suscitata dalle riflessioni su Dante proposte da Franco Nembrini di cui trovate qui una intervista video.
Abbiamo dimenticato che l’annunzio del Vangelo non avviene spesso in forma diretta, bensì nell’incontro con la Chiesa, nell’incontro con uomini che mostrano che la fede è capace di illuminare la vita degli uomini e la rende diversa e carica di senso.
Proprio questo è il punto più delicato nell’interrogazione che san Pietro rivolge a Dante nel Paradiso. Pietro lo interroga sul fondamento della fede, su quale sia il motivo per cui possiamo e dobbiamo credere in Dio. È dinanzi a questa domanda che Dante vacilla prima di rispondere saggiamente. È l’apostolo a ritenere insufficiente la prima risposta di Dante.
«Dì, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura» (vv. 103-105).
Cioè, dice san Pietro: «Dimmi, Dante, chi ti assicura che le opere di Dio siano proprio come noi crediamo? Non puoi provare quelle opere facendo riferimento al libro della Bibbia che te le giura, perché è la sua stessa verità che devi provare».
Il dialogo è nel canto XXIV del Paradiso. Nel canto san Pietro interroga Dante, proprio come fa un professore con i suoi allievi, mentre successivamente san Giacomo e san Giovanni lo interrogheranno sulla speranza e sulla carità.
Le domande, in sequenza, riguardano prima cosa sia la fede, poi quale sia il suo contenuto, poi se Dante la fede l’abbia veramente e ancora da dove venga.
Qui si legge uno dei versi più belli del canto. Nel rivolgere la sua quarta domanda Pietro dice con parole notissime:
«Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda,
onde ti venne?» (vv. 89-91).
La fede è descritta come la “cara gioia”, una felicità che ci è cara, sopra la quale ogni altra virtù si fonda. Poiché se la fede non fosse vera non potremmo avere pienamente la speranza dato che il mondo sarebbe destinato alla morte, ma non potremmo avere nemmeno un amore pieno, capace di quel perdono totale che solo Cristo donò dalla sua croce.
Comunque, nel rispondere alla domanda quale sia la prova della fede Dante viene contestato da san Pietro. Infatti il sommo poeta afferma in un primo momento che la fede si fonda per la testimonianza della Parola di Dio, per la Bibbia e per i miracoli in essa raccontati.
Così dichiara infatti:
E io: «La prova che ’l ver mi dischiude,
son l’opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude» (vv. 100-102).
Sostiene cioè che la prova che gli dischiude la verità della fede è data dalle opere compiute da Dio alle quali la natura non può scaldare il ferro o battere l’incudine (cioè arrivare con le proprie forze), insomma sarebbero i miracoli descritti dalla Bibbia a provare la fede.
Ma san Pietro contesta la risposta, come abbiamo già visto:
Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura
che quell’ opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura» (103-105).
Cioè i miracoli sono affermati (giurati) da quella stessa Parola di Dio che è ciò che deve essere provato! Non si può provare la verità di un’affermazione ricorrendo all’affermazione stessa – è ciò che in latino si chiama petitio principii, cioè rispondere utilizzando il principio.
Dante, però, risponde una seconda volta e questa volta giustamente, convincendo senza appello:
«Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»,
diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno
è tal, che li altri non sono il centesmo:
ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno» (vv. 106-111).
Cioè la verità della fede è garantita da qualcosa di esterno alla Bibbia stessa, e precisamente dal fatto che il mondo si rivolse al cristianesimo: la prova della fede è data dal miracolo dell’esistenza della Chiesa. Questo miracolo è tale, senza altri “miracoli”, che gli altri valgono solo un centesimo di questo. Infatti – spiega Dante – Pietro annunziò Cristo,pur essendo il primo degli apostoli povero e senza mezzi, seminando la buona pianta della fede: ne nacque la Chiesa che è una vite, la vite cui Cristo ha dato origine, anche se nel momento storico in cui visse Dante è come un pruno.
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Dante afferma così che chi lo ha convinto della fede è il grande miracolo dell’esistenza del popolo cristiano. Dal Cristo è nato quel popolo che ha amato, ha perdonato, ha affrontato il martirio, ha insegnato al mondo la dignità dell’uomo, la grandezza dello studio e della ricerca, ha vissuto l’amore per i poveri, ha sperato contro ogni speranza, ha dato fiducia al mondo intero.
Tale miracolo resta tale anche se in alcuni momenti della storia – come afferma Dante – la vite si è fatta pruno. I peccati commessi dai cristiani non solo non diminuiscono il miracolo dell’esistenza del popolo di Dio, ma anzi lo esaltano ancor più perché la Chiesa continua ad esistere e a fare del bene nonostante il peccato dei suoi uomini.
In Boccaccio, nella II novella del I giorno del Decamerone si afferma qualcosa di simile. Boccaccio – che fu colui che iniziò le pubbliche spiegazioni a Firenze della Divina Commediache il popolo richiedeva – nel Decamerone racconta la storia da lui inventata, ma teologicamente perfetta, di un ebreo che prima di battezzarsi volle andare a Roma per vedere come vivevano i cristiani ed al ritorno confermò di volersi battezzare perché se la Chiesa continuava ad esistere ed a crescere nonostante l i peccati del papa e dei preti della Curia romana ciò voleva dire che la Chiesa stessa era qualcosa di non semplicemente umano, bensì era sorretta divinamente dallo Spirito che la rendeva feconda, nonostante il suo esser “pruno”. Per la novella di Boccaccio la Chiesa continua ad offrire la grazia di Dio nonostante la miseria degli uomini e ciò è segno della presenza divina in essa.
In effetti noi crediamo non solo perché sentiamo annunziare i miracoli compiuti da Gesù in Terra Santa, ma anche perché vediamo come solo dinanzi a Lui la vita degli uomini fiorisca. Siamo giunti alla fede nella nostra vita, per aver intuito che nell’incontro con Lui i cuori si convertono. Crediamo nell’opera di Dio perché vediamo che la Chiesa continua a generare santi anche nei momenti più bui della sua storia, sempre santa e generatrice di santità anche quando i suoi figli peccano.
La teologa fondamentale della seconda metà del novecento ha riscoperto come la Chiesa sia il segno personale della verità e della bellezza di Dio. Importantissimi sono stati in questo senso gli studi di R. Latourelle e la sua opera Cristo e la chiesa segni di salvezza (edito da Cittadella). Tutto il lavoro di Latourelle, proseguito poi dalla sua scuola ed in particolare dal prof. Fisichella, oggi vescovo, ha giustamente abbandonato la via delle singole “prove” della verità cristiana per concentrarsi sui due “segni” personali di credibilità: la persona stessa di Gesù e la vita della Chiesa.
Breve nota catechetica
La dimenticanza di quanto detto è evidente nella catechesi oggi. Così come la dimenticanza di quell’uomo nuovo che è l’altra faccia dell’annunzio del vangelo. Dice la Gaudium et spes: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». E papa Francesco ricorda che se non sono manifeste le conseguenze sociali del Vangelo il Vangelo non è pienamente annunziato (EG 176): «Vorrei condividere le mie preoccupazioni a proposito della dimensione sociale dell’evangelizzazione precisamente perché, se questa dimensione non viene debitamente esplicitata, si corre sempre il rischio di sfigurare il significato autentico e integrale della missione evangelizzatrice».
Spesso, invece, la catechesi si limita a presentare la figura di Gesù come emerge dal Nuovo Testamento, senza giungere a parlare della Chiesa che da lui è nata, dell’uomo il cui “mistero” è illuminato dal “mistero” dell’Incarnazione e della dimensione sociale della fede che trasforma il mondo.
Ricordo un incontro con un amico neocatecumenale che insisteva nel dire che il kerygma era affermare semplicemente che Cristo era morto e risorto e niente altro. Al che io rispondevo: ma se il kerygma fosse solo questo, fratello, perché poi aggiungi il racconto di mezz’ora di come tu ti sei convertito? Perché il kerygma non è solo l’annunzio di ciò che è avvenuto a Gesù, ma anche di ciò che da lui è nato: la Chiesa e la tua conversione!
Possano queste bevi note su Dante contribuire a camminare invece in questa direzione.