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5 risposte più 1 per capire la strategia del terrore dell’ISIS

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Aleteia - Lucandrea Massaro - Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 23/03/16
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L’Isis è un progetto di egemonia nel Medio Oriente che mira a tenere lontana l’Europa con la minaccia del terrorismoDa Parigi a Bruxelles. La cieca violenza dei terroristi si è riversata sulla vita quotidiana di chi, come vi scrive o come voi che ci leggete, aveva deciso di passare una serata allo stadio, al ristorante, ad un concerto come nella capitale francese, o poteva trovarsi in aeroporto o in metropolitana come invece è avvenuto in quella belga.

Di fronte a questa ondata di orrore, morte, distruzione è bene comunque che la commozione e la paura, perfino il risentimento, lascino un po’ di spazio alla riflessione. Ecco perché, attraverso alcune domande, proviamo a spiegarvi – senza banalizzare, né trarre conclusioni affrettate – la strategia che sta seguendo il terrorismo islamico.

Siamo in guerra?

Per usare le parole della rivista Limes, una delle principali fonti di informazioni di geopolitica in lingua italiana, la risposta è si.

«La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento. Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, IS)».

Che cos’è l’Isis (o meglio l’IS)?

Il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi ha proclamato la nascita del califfato (khilafah) nei territori dello Sham, compresi tra Siria e Iraq sunnita, che ha assunto la denominazione di Stato Islamico. Abu Bakr, 44enne, con un discorso enfatico tenuto il 6 luglio dal pulpito della moschea sunnita (al Nuri) di Mosul, città appena conquistata dalle truppe dell’Isis, ha ufficializzato il suo ruolo di califfo dell’Islam invitando i musulmani a unirsi nella lotta per la difesa della Ummah (la comunità araba).

E’ un progetto di egemonia che punta a ridisegnare il Medio Oriente rispetto all’attuale suddivisione frutto dell’ingerenza occidentale nella regione quando per abbattere l’Impero Ottomano, Inghilterra e Francia promisero agli arabi una nazione contro l’egemonia turca di Istanbul. Come ci ricorda The Post Internazionale:

«Il califfato si estende da Aleppo, nel nord della Siria, alla regione di Diyala, nell’est dell’Iraq. Attualmente occupa un territorio di circa 35mila chilometri quadrati e oltre 6 milioni di persone vivono sotto il suo controllo. La rapida conquista del territorio iracheno e siriano da parte dello Stato Islamico e le vittorie a raffica conseguite nell’arco di poche settimane nel mese di giugno sono state costruite in realtà in mesi di manovre lungo due fiumi, il Tigri e l’Eufrate».

La sua capitale è Raqqa. Ha un esercito che, secondo il calcolo di alcuni servizi d’intelligence, si aggirerebbe complessivamente intorno alle 25.000 unità. E’ un brand di cui si stanno appropriando, per conferire maggiore prestigio a se stessi, i movimenti islamisti di altri Paesi. A differenza di Al Qaeda che reclutava i suoi seguaci nei Paesi arabi e in quelli musulmani dell’Asia centrale o meridionale, l’IS ha reclutato centinaia di militanti nelle comunità islamiche europee.

Perché il Califfo è il capo legittimo dello Stato Islamico?

Per la prima volta dopo l’abolizione del califfato ottomano ad opera della Turchia repubblicana e kemalista, scrive la Fondazione internazionale Oasis per il dialogo interreligioso, nel mondo islamico qualcuno ha osato attribuirsi l’“imamato supremo”. Al-Baghdadi sarebbe il califfo legittimo della Ummah universale.

Il Califfo, secondo alcuni testi diffusi dall’Is sul web, è legittimo perché soddisfa tutte le condizioni previste dai giuristi dell’epoca classica per l’imamato: «Per essere idoneo l’imam deve soddisfare dieci condizioni: dev’essere maschio, libero, adulto, dotato di ragione, musulmano, giusto, coraggioso, discendente dei Quraysh, sapiente, capace di assolvere ai compiti affidatigli, ovvero la politica e gli interessi della umma». Al-Baghdadi riunirebbe in sé le principali caratteristiche del buon governante: «una conoscenza religiosa (‘ilm) e una genealogia che risalgono al Profeta».

Il Califfo quindi sarebbe un eletto di Dio e avrebbe «purificato le zone dell’Iraq e del Levante dall’abominio safavide [dinastia musulmana sciita che regnò in Persia nei sec. XVI-XVIII] ed alawita e dall’apostasia, estendendo su di esse l’Islam». Concluso il patto che lega il califfo alla Ummah, i musulmani sono invitati a non trasgredire le regole fissate dal califfo e a rendergli omaggio in virtù della sua discendenza nobile

Perché gli attentati di Bruxelles?

È assai probabile che l’attentato di ieri a Bruxelles sia l’esito, certamente già pianificato nei modi, di una reazione all’arresto di Salah Abdeslam il decimo uomo del commando dalla strage del13 novembre a Parigi che causò 130 morti. Qui il primo “perché”, ma quello più profondo, ovvero come mai il Belgio è così vulnerabile all’islamismo radicale, è più complesso e va ricercato in motivazioni di lungo periodo. Spieghiamo meglio: il Belgio è il paese che in termini pro capite ha il numero maggiore di propri cittadini che sono andati a combattere nella guerra civile in Siria. La magistratura belga stima che 272 giovani belgi stiano combattendo nel paese mediorientale (Sole 24 ore, 22 marzo). Ma come è stato possibile questo? Probabilmente un pezzo della risposta sta nella fortissima presenza, sin dagli anni ’70, di una particolare variabile dell’Islam: il wahabismo, cioè l’ideologia radicale su cui poggia il proprio potere l’Arabia Saudita e la sua monarchia.

Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Fu il primo paese europeo. Il risultato immediato, nel 1975, fu l’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. “Fu una decisione del re belga Baldovino”, dice al Foglio Michael Privot, massimo islamologo belga e direttore dell’Enar, l’European Network Against Racism. Baldovino, il “re triste”, cattolico e austero, “aveva stabilito buoni legami con la monarchia saudita e il re Faisal. Questo riconoscimento avvenne nel mezzo della crisi petrolifera, perché il Belgio cercava rifornimenti dall’Arabia Saudita. Nel 1974, i musulmani in Belgio erano alla prima generazione, lavoravano nelle miniere e volevano spazi per pregare nelle moschee. Allora non c’era autorità religiosa in Belgio. Il re Baldovino offrì ai sauditi il Pavillon du Cinquantenaire con un affitto della durata di 99 anni. L’edificio sorge a duecento metri dal Palazzo Schuman e dal quartier generale dell’Unione europea; l’Arabia Saudita lo trasformò nella Grande Moschea del Cinquecentenario, diventando l’autorità islamica de facto del Belgio.

Si può dire dunque che l’influenza della monarchia saudita, da tempo dietro molta parte del terrorismo islamista, sull’Islam in Belgio abbia reso più facile una radicalizzazione da parte delle nuove generazioni di giovani che non sono più immigrati, ma cittadini europei, di seconda o addirittura terza generazione.

Tre anni fa, documenti di WikiLeaks hanno rivelato tensioni fra il Belgio e l’Arabia Saudita. Bruxelles era molto preoccupata per il fondamentalismo islamico diffuso dalla Grande Moschea. Le autorità belghe ottennero così la testa del direttore, Khalid Alabri, un diplomatico saudita. Una scelta, quella fatta dal Belgio quarant’anni fa, criticata oggi anche dal ministro francofono belga Rachid Madrane, musulmano, che al giornale La Libre ha detto: “Il peccato originale del Belgio consiste nell’aver consegnato le chiavi dell’islam nel 1973 all’Arabia Saudita per assicurarci l’approvvigionamento energetico”. Sono tante le propaggini saudite a Bruxelles (Il Foglio, 22 marzo).

Così Paolo Maggiolini dell’ISPI in collaborazione con la Fondazione Oasis:

“L’arresto di Salah Abdelslam è molto recente e questo suggerisce due ipotesi: la necessità di accelerare i tempi di un’operazione già programmata per paura che venisse compromessa oppure, dall’altra parte, un atto di dimostrazione per ‘rifarsi’ dell’arresto. Con un nota bene: la figura di Salah è ancora molto enigmatica e sarebbe necessario comprendere qual è la percezione che il suo network ha di lui per capire se il suo arresto può aver provocato un attentato come questo. L’attacco a Charlie Hebdo sembrava un evento episodico, adesso invece c’è la capacità di colpire su più scenari contemporaneamente, con individuazione di un obiettivo primario – l’aeroporto – e subito dopo un altro, la metropolitana. È ormai evidente la presenza sul territorio di una rete che coordina, ospita e fa muovere persone e armi. Non occorre ingigantire il fenomeno ma è inutile pensare che siano poche persone.
Quando si parla di network di sostegno è necessario capire cosa si intende e ragionare sulla situazione del Belgio. Entrare nella prospettiva di una rete è molto complicato perché vuol dire ragionare su attori molto differenti tra loro: quelli del gruppo armato, ma anche coloro che forniscono supporto indiretto e logistico sul territorio. È per questo che sicurezza e politica territoriale vanno tenute insieme, evitando letture esclusivamente securitarie: le reti di sostegno sono un fenomeno che interroga il nostro territorio. Così come si è sempre detto che non bisogna cadere nell’errore di considerare terroristi tutti i musulmani, ora non si deve ostracizzare interi quartieri come Molenbeek, ma interrogarsi sulle radici e il vissuto di quel posto perché ormai è evidente che dietro la parola ‘radicalizzazione’ c’è un vissuto e dei percorsi che possono essere molto diversi da persona a persona. A questo proposito va tenuto presente che il Belgio, in proporzione al numero di abitanti, ha il più alto numero di foreign fighters partiti per il Medio Oriente e quindi non si può escludere nemmeno un fenomeno di ritorno, da valutare in relazione anche alla situazione del fronte siro-iracheno, con Isis che potrebbe optare per una diffusione della sua presenza anziché una concentrazione sul fronte mediorientale, man mano che in quel contesto aumentano le difficoltà”

LEGGI ANCHE: L’islam è intrinsecamente violento?

 

Che differenza c’è tra IS e al-Qaeda?

Una grande differenza, riassumibile in due aspetti: l’organizzazione e l’interpretazione coranica.

Sebbene siano entrambi gruppi estremisti radicali, l’interpretazione del Califfato è ancor più letterale di quanto non fossero i seguaci di Osama bin Laden, nel loro wahabismo. Per l’IS siamo alla fine dei tempi, c’è un che di “messianico” nel loro agire e nel loro voler ristabilire ogni aspetto di quanto descritto nel Corano compresa la schiavitù, la tortura contro gli infedeli, le crocefissioni, i matrimoni precoci, la marginalizzazione delle minoranze religiose (cristiani, yazidi). Sono convinti che è arrivato il momento di prepararsi alla guerra contro “Roma”, cioè l’Occidente e che a breve arriverà l’anti-Messia contro cui combattere in attesa che Gesù torni alla Fine dei Tempi. Sì, anche l’Islam crede che Gesù tornerà alla fine della storia dopo la battaglia finale contro Satana. Da un punto di vista organizzativo la differenza è altrettanto abissale e discende dall’interpretazione: non più (o non solo) attacchi in Occidente, ma controllo del territorio in Medio Oriente. Edificare una nazione coranica, laddove al-Qaeda pretendeva per lo più di rovesciare i governi delle monarchie saudite costringendo gli Usa e l’occidente ad andarsene dall’Arabia Saudita considerata luogo santo dell’Islam per la presenza delle città sante de La Mecca e di Medina.

La vittima principale di Is è proprio l’Islam

Come ricorda Paolo Magri direttore dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) intervistato da Famiglia Cristiana:

Il mondo islamico è da anni la principale vittima del terrorismo radicalizzato. Si muore soprattutto in Paesi islamici: si muore in Iraq, in Siria, in Tunisia, si muore, con attentati recenti, in Arabia Saudita e Kuwait, ed anche a Parigi, quando ci sarà la tragica contabilità dei morti, scopriremo probabilmente, alla luce della composizione della società francese, che saranno più i morti di origine musulmana che non gli attentatori coinvolti nei tragici fatti. Tutto ciò deve imporci una assoluta cautela nell’associare l’appartenenza ad una religione al fenomeno terroristico che stiamo vivendo. Se facessimo ciò, come molti partiti xenofobi in Europa stanno facendo in queste ore, faremmo il gioco dei terroristi che non vogliono altro che alzare il tono del confronto e configurare uno scontro di civiltà e religioni”.

Quali sono gli obiettivi dei terroristi in Europa?

Come spiega Jason Burke su The Guardian vanno evidenziate tre cose:

1) dimostrare che la minaccia jihadista in Europa può diminuire o crescere, ma non scompare solo perché un singolo esponente è stato arrestato (Salah Abdeslam), per quanto attesa fosse la sua cattura;

2) mantenere l’iniziativa. La cosa ha degli aspetti pratici e psicologici. Le agenzie di controterrorismo cercano di ottenere informazioni abbastanza velocemente da poter organizzare dei blitz e neutralizzare i sospetti prima che abbiano il tempo di capire chi di loro è stato catturato e chi potrebbe aver parlato, e ovviamente anche prima che possano pianificare un nuovo attacco. Le reti terroristiche si disgregano facilmente se sottoposte a una simile pressione costante, come è stato mostrato in Iraq a metà del decennio scorso;

3) mostrare di essere ancora in grado di terrorizzare, agire rapidamente e radicalizzare lo scontro grazie alla violenza. Non si tratta tanto di vendetta, ma più semplicemente di dimostrare che la loro capacità di colpire è intatta. Come se volessero dire: siamo stati colpiti, ma ci siamo ancora.

Come si muove la rete dell’IS in Europa?

Sul Corriere della Sera, Guido Olimpio rileva che lo Stato Islamico a Bagdad come a Parigi e Bruxelles è ricorso alla stessa tattica. Ha infiltrato cellule con compiti futuri ha spedito uomini scelti per mettere insieme dei team e fondare le basi (sarebbero 90 i “martiri” inviati in Europa).

Sempre in modo fluido e agile, il Califfato si è affidato agli operativi, i facilitatori. Il secondo livello. Alcuni bravi nel falsificare i documenti, altri abili nel confezionare ordigni ma anche a coordinare le mosse. Abdelamid Abaaoud, la mente degli attacchi di Parigi, era uno di loro, e lo era anche Samir Bouzid, ucciso pochi giorni fa in Belgio. Un profilo nel quale troviamo i latitanti Najim Laachraoui, l’artificiere degli attacchi all’aeroporto e alla metropolitana in Belgio e Mohamed Abrini, un’altra delle menti delle stragi di Parigi.

Hanno senso i bombardamenti?

La risposta francese a meno di due giorni dagli attentati (il bombardamento di Raqqa) fanno pensare più ad una reazione muscolare ad uso interno che non ad una strategia basata su una visione ampia dei fatti. Il terrorismo in Europa – con cui conviviamo almeno dal 2005 con la strage di Madrid – di matrice islamista va combattuto con l’investigazione, la polizia, gli infiltrati insomma con l’intelligence e gli 007 e contemporaneamente con una migliore integrazione perché non si ripetano gli errori delle banlieue francesi, cioè la ghettizzazione e l’emarginazione di una generazione di giovani. Una risposta non basata solo o principalmente sulla guerra è probabilmente la nostra migliore risposta…

 

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