Riscoprire la preghiera al Padre come il nostro vero pane quotidiano “Il canto del pane” di padre Ermes Ronchi (Edizioni San Paolo) è un commento biblico, teologico e lirico alla preghiera del Padre Nostro in cui è racchiusa la sostanza del cristianesimo: la relazione tra Dio e l’uomo.
La potenza e la bellezza del messaggio evangelico sono custodite “non in una dottrina o in un insieme di dogmi” ma in una preghiera al Padre. Spesso però chi la recita non avverte l’esclusività del rapporto con Dio, e l’orazione gli appare come un monotono ripetersi di parole prive di significato. Il libro accompagna il lettore in un percorso di riscoperta del valore della preghiera, del senso profondo dell’essere credenti e oranti, scandito dai versi del Padre Nostro che fanno da titolo ai capitoli del libro.
«In ogni epoca i cristiani hanno tentato di giungere all’essenza, al nocciolo del cristianesimo. Ebbene, il Vangelo stesso ce lo trasmette con il Padre Nostro. È in una preghiera, e non in una dottrina o in un insieme di dogmi, che è riassunto il messaggio di Gesù. E ciò è denso di significato: pregare è l’evangelo. Buona, lieta e umana notizia fatta risuonare in una cultura che ha perso la fiducia, piena di divinità irate e di miti sfiduciati. Preghiera è relazione. Il Vangelo non si riassume in una verità, bensì in una relazione».
Ma come e da dove nasce la preghiera in generale, e il Padre Nostro in particolare?
«In principio non c’è la preghiera. In principio c’è uno shock esistenziale (L. Boff). La preghiera non è il primo atto dell’uomo. Prima c’è un’esperienza, un grido, la passione del dolore, un amore, la carezza della gioia. Ed è da questa sorgente che nasce l’orazione come supplica e come canto, talvolta come contestazione. Bisogna essere ben vivi per saper pregare. (…) Abbà è la parola chiave del Vangelo, un termine aramaico (la lingua materna di Gesù) che anche i cristiani di lingua greca ripetono. Paolo afferma che lo Spirito in noi prega gridando. “Abbà – Padre” (Gal. 4,6). È questa una delle pochissime parole che sappiamo pronunciate così, con questo suono, da Gesù stesso. Una parola detta nell’orto dell’agonia, nel momento della scelta decisiva: riuscire a chiamare Dio come Padre nel momento in cui la prospettiva è quella di una morte infamante e dolorosa, significa accettare di restare fedele a Dio, costi quel che costi; significa la fiducia che oltre le soglie della morte la vita non affonderà nel nulla, ma fra le braccia di un amore. Il Padre Nostro lo si capisce solo in questa situazione di shock esistenziale».
Perché è così difficile per noi chiamare Dio “papà”?
«(…) Gesù diceva: Abbà. Tutte le preghiere che gli evangelisti ci hanno tramandato iniziano con questa parola: Padre. Per 170 volte ricorre nei Vangeli questo termine che è una delle caratteristiche inconfondibili di Gesù. (…) La singolarità del rapporto di Gesù con il Padre è una costante di tutti e quattro i Vangeli. E lo rivela anche l’uso sorprendente di alcune formule: Gesù parla sempre di “mio Padre”. Gesù aveva coscienza di una relazione unica, e non estensibile, con il Padre. (…) Ma Gesù diceva: “Abbà”. Abbà è la parola aramaica con cui i bambini in casa chiamano il papà; fuori casa, il figlio che incontra il genitore, lo chiama “Signore”. In casa, anche il figlio sposato si rivolge al genitore con “abbà”. È la parola più confidenziale, più affettuosa, più familiare. (…) E qui dobbiamo confessare che anche per noi è insolito e strano rivolgerci a Dio con l’appellativo di papà; anche per noi, ancora oggi, il messaggio di Cristo suona sconcertante e l’abbiamo talvolta travisato o corretto, talvolta velato o dimenticato. (…) In questa parola “abbà” è l’originalità dell’esperienza di Gesù. E dice che l’identità della vita, il nome del vivere, è l’amore».
Nel rivolgerci al Signore chiamandolo “papà” «scopriamo allora di avere un Padre, che non nasciamo per una combinazione casuale di cellule, che non si vive per coincidenze, né si muore per caso, votati al nulla, ma che tutto è sotto il segno della paternità. (…) Perciò la prima parola della preghiera è Padre, anzi papà, cioè una vibrazione, una totalità, una modulazione della gamma dell’amore. Un amore sorgivo, iniziale, primordiale: la radice della preghiera e della fede e di tutta la religione è ciò che Dio ha fatto per me, non ciò che io faccio per Dio. Pregare dicendo Padre è entrare in una struttura di fiducia(…)».
“Nessuno può vivere senza pregare” e senza un “altro” a cui chiedere aiuto scrive nella presentazione al libro padre David Maria Turoldo. Tutti, anche l’ateo, hanno bisogno di un qualcuno a cui rivolgersi. Tale necessità comporta una riflessione fondamentale che l’uomo oggi tende a rifiutare allontanandosi così da Dio e dalla verità sulla sua natura: non mi basto, non mi genero da solo, tutti abbiamo bisogno dell’altro.
«La prima esperienza di umanità che noi tutti facciamo è quella della filialità: noi esistiamo perché figli. Figli di un uomo e di una donna e del loro amore, figli di una storia, figli di Dio. La prima esperienza è l’essere generati, da altri, a una vita che non è mia, che viene prima di me e che va oltre me. A una vita che è dono. La prima esperienza è che nessuno è figlio di se stesso. La prima parola del Padre Nostro ci apre alla trascendenza. Questa parola grossa, difficile, indica la manifestazione di un “al-di-là”, di un “altrimenti” che un uomo e una donna annunciano come il segreto del loro modo di vivere. Il mio segreto è un “oltre”. Questo affermo quando dico “Padre”: il mio segreto è oltre me».
I discepoli chiedono a Gesù “insegnaci a pregare”, che significa rivelaci «un modo di stare davanti a Dio, un modo di stare con gli altri e di vivere nel mondo», e i quattro evangelisti apportano ritocchi e aggiunte differenti alle parole che il Signore indica per rivolgersi al Padre, perché «le parole possono variare, ma il contenuto e il cuore sono gli stessi» scrive l’autore. La preghiera non è una formula fissa «ma il gemito e il fuoco di una passione unica per la vita».
Perché oggi la preghiera riscuote così scarse “quotazioni” anche fra gli stessi cristiani? Pregare è esattamente agli antipodi dell’egocentrismo che oggi è l’atteggiamento dominante nella vita dell’uomo occidentale. La preghiera è la negazione del narcisismo e del mito dell’autosufficienza: è l’affermazione del “noi”, del legame che ci unisce gli uni agli altri, dell’appartenenza ad una comunità che per il cristiano è l’Ecclesia, in cui ci si riconosce fratelli e figli del Padre.
«Il Padre Nostro è una preghiera “espropriata”, l’orazione in cui mai si dice “io”, mai “mio”, la preghiera in cui si è liberi dalla tirannia di questo “io” che vuole mettersi al centro. Il primo atteggiamento per pregare è un decentramento, è imparare a dire TU: il tuo nome, il tuo Regno, la tua volontà; e – di conseguenza – è imparare a dire noi: il nostro pane, i nostri debiti, il nostro male. Pregare è decentrarsi dal proprio io e ricentrarsi nella relazione. In questa preghiera la passione per il cielo si coniuga con la passione per la terra. E la causa dell’uomo diventa la causa di Dio. Qui udiamo la sua voce che continuamente dice: “va’”, che continuamente chiama e dice “vieni”. (…) Non si può pregare se non si ama con la stessa intensità cielo e terra. Il Padre Nostro è la preghiera degli appassionati: è nata da una immensa passione ed è destinata non a grigi impiegati, ma a gente ben viva, appassionata di Dio e degli uomini».
Nel Padre Nostro l’uomo ritorna all’essenziale, agli aspetti fondamentali della vita: scopre di avere un padre che lo ama, che provvede alla sua esistenza donandogli il pane quotidiano e che lo libera dal male.
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete».