P. Antuan Ilgit lancia l’appello su Fb: “Dopo i fatti di Ankara, anche la bandiera turca sui profili social”“Vorrei che per qualche giorno cambiaste la foto del vostro profilo con una bandiera turca come avete e abbiamo fatto quando erano Parigi, Madrid, Londra ad essere colpite”. P. Antuan Ilgit si è rivolto agli amici di Facebook dopo l’attentato di Ankara del 13 marzo per chiedere ai giovani europei e occidentali di esprimere solidarietà verso le vittime e verso i loro coetanei turchi che vivono un tempo di grandi contraddizioni. P. Ilgit è il primo sacerdote gesuita di nazionalità turca in un Paese dove il clero è quasi esclusivamente straniero. Oggi è negli Stati Uniti per il dottorato in Teologia Morale al Boston College, ma il pensiero non può non correre alla Turchia e ad Ankara, in particolare, dove ha compiuto gli studi universitari e maturato la conversione al cristianesimo e la vocazione sacerdotale.
E’ il terzo attentato che colpisce la città in cinque mesi: cosa provi?
Ilgit: È difficile leggere i giornali o guardare i Tg che aggiornano il conto delle vittime e dei tanti feriti: studenti universitari, il papà del giocatore del Galatasaray Umut Bulut, operai, poliziotti… Io sono di Mersin, a 25 chilometri da Tarso, ma Ankara è l’amata città in cui ho vissuto anni significativi della mia vita. Quattro anni di università a Scienze economiche e amministrative, durante i quali di sera vendevo dei gettoni per i telefoni pubblici proprio sulla strada dell’attentato e poi due anni di servizio militare, durante il quale prendevo i pullman dell’esercito nello stesso posto colpito nell’attentato precedente. Sono stato battezzato ad Ankara, ho celebrato la mia prima Messa sempre lì. Ho iniziato il mio dottorato che ora continuo qui a Boston, sempre lì ad Ankara vivendo circa un anno nella comunità dei gesuiti.
La tua famiglia è musulmana e tu sei cresciuto in questa fede. Come è iniziato il tuo percorso verso il cristianesimo?
Ilgit: Se anche i miei genitori sono di fede musulmana la loro appartenenza non è mai stata profondamente religiosa bensì socio-culturale. Dentro di me c’era un’inclinazione verso aspetti spirituali e profondi che non riusciva a trovare corrispondenza. La svolta che mi ha portato a incontrare Gesù come Figlio di Dio è stata la malattia di mia madre che abbiamo perso a 51 anni per un tumore. Mio padre faceva il pescatore e la mia famiglia non aveva i mezzi per pagare le spese sanitarie. Io avevo 20 anni e ho cominciato a pormi sull’ingiustizia, la sofferenza, la vita. Ho cercato risposte nel sufismo, nell’ebraismo, nel protestantesimo. Ogni incontro mi rimandava ad un altro.
E poi cosa è successo?
Ilgit: Sono entrato nella chiesa cattolica di sant’Antonio a Istanbul. Nella messa celebrata in turco ho incontrato un Dio che si era fatto uomo, un Dio onnipotente e umile, un Dio che metteva la sua tenda in mezzo all’umanità, al contrario di un Dio che aveva delle distanze invalicabili e tendeva sostanzialmente a giudicare e punire come ero stato istruito nei corsi coranici che da bambino frequentavo nella moschea del mio quartiere.
L’adesione al cristianesimo non è stato un cambiare religione, ma un vero e proprio incontro personale con Cristo. Lui, servendosi della mia fede in un unico Dio e della mia inquietudine interiore, è venuto a incontrarmi nel mio lago di Galilea e mi ha chiamato a seguirlo. Dopo questo incontro, riuscendo a dare un senso nuovo e profondo alla situazione di mia madre, sono riuscito anche a seppellirla in pace e seguire Lui con i miei inevitabili alti e bassi. L’incontro con Lui era un perfezionamento della mia fede e riconciliazione e ricollocazione di molte parti della mia vita.
Il tuo non è stato un percorso facile. Come vivi oggi l’incontro tra le tue origini e la fede cristiana?
Ilgit: Quando ci si converte la più grande difficoltà è che sei rifiutato dalla tua comunità di appartenenza e non sei accolto a braccia aperte dalla comunità cristiana che, almeno inizialmente, ha delle resistenze, dei dubbi sull’autenticità della tua fede e sulle tue motivazioni. Specialmente in Turchia dove le comunità cristiane sono composte dai fedeli armeni, siriaci, maroniti e così via, con un’appartenenza anche di tipo etnico, c’è una resistenza radicata nei confronti dei convertiti; per molti di loro, contrariamente al messaggio evangelico, “cristiani si nasce!”. Tuttavia la grazia della conversione che ho ricevuto come dono mi dà la grande responsabilità di essere un ponte tra le culture che trova concretezza nella missione che mi è stata chiesta come gesuita. In questo momento sono impegnato nel dottorato in teologia morale con la prospettiva di un contributo al dialogo interreligioso attraverso la bioetica. La mia tesi prende in esame le prospettive musulmane e cattoliche sulla disabilità nel contesto attuale della Turchia e propone una pista di dialogo basata su questa tematica. La bioetica è un campo fertile per un dialogo fruttuoso in quanto tutte le fedi, specialmente il cristianesimo e l’islam, si pongono riflessioni etiche.
Anche papa Francesco ripete che oggi servono ponti e non muri…
Ilgit: E’ così. Io ho una doppia cittadinanza, turca e italiana. Dopo la mia meravigliosa esperienza di vita, che considero un dono, non potrei essere interamente turco o interamente italiano. Sento di appartenere a tutte e due le culture e porto nel cuore tutti e due i Paesi, amandoli profondamente e criticandoli costruttivamente quando è necessario. In questo senso penso di poter avere una missione nell’accompagnare gli immigrati che sono in Europa e quelli che bussano alle sue porte nel loro processo di adattamento ai valori fondamentali dei paesi che li accolgono.
Hai scritto che i ragazzi turchi hanno bisogno di vedere che qualcuno tiene a loro: perché?
Ilgit: Perché non vedono più un futuro per loro. Il governo aveva fatto coraggiosi ed ammirabili passi per risolvere la cosiddetta “questione curda” che è costata tante vittime, risorse e energie. Il processo di pace iniziato, aveva trovato una corrispondenza sincera nella parte contrapposta e aumentato la speranza di una pace duratura. Però poi, chi aveva iniziato questo processo, l’ha anche fermato, e così che è stato dato il via a un’escalation delle violenze. Agli attentati la classe politica reagisce con delle operazioni militari nell’est del paese contro i terroristi del PKK; da mesi molte località del sud sono impercorribili e mentre i terroristi vengono eliminati, la gente normale, bambini, donne, anziani lasciano le loro case e si spostano. C’è una migrazione interna che fa paura e che al momento rimane all’ombra dell’immigrazione siriana.
Cosa pensi che accadrà?
Ilgit: Tutto questo – ma è la mia opinione esclusivamente personale, da cittadino turco che non rappresenta altri se non se stesso – crea nuovi traumi che finiranno per generare nuovo odio e nuove violenze. Come cittadini turchi sappiamo bene per esperienza che l’azione militare non è una soluzione giusta, non porta frutti duraturi e che bisogna ritornare a tavolo per ristabilire la pace, l’unità e la riconciliazione. Il paese si sta allontanando anche dal processo di democratizzazione richiesta dall’Europa; giornalisti, scrittori, accademici che esprimono anche in modo costruttivo i loro dubbi, le loro incertezze sull’andamento della situazione vengono processati, messi in carcere e perdono il loro lavoro. In un contesto del genere è molto difficile che per un giovane si prospetti un futuro nonostante la Turchia abbia tantissime risorse naturali, culturali, economiche. La popolazione turca è giovane, energica, aperta ai valori occidentali, al progresso, alla democrazia. Spero di tutto cuore e prego continuamente che il Signore tocchi i cuori di chi ha la possibilità e il potere di governare meglio.
Su Facebook hai chiesto di esprimere visivamente la solidarietà con Ankara, come è accaduto con Parigi…
Ilgit: Come spiega bene il mio confratello p. Antonio Spadaro, la rete non è un secondo ambiente in cui si vive, ma un tessuto connettivo della nostra esperienza del mondo. Abbiamo visto la forza di Facebook e Twitter nel trasmettere il grido per più democrazia e per più diritti in vari paesi. Attraverso il mio post ho cercato di sensibilizzare la gente, gli amici sul fatto che davanti alla violenza e all’ingiustizia bisogna unirsi, perché quello che capita me oggi, può capitare te domani. I social media hanno i loro modi propri e per questo ho proposto di condividere non solo e necessariamente le bandierine turche, ma magari una poesia del nostro Nazim Hikmet accompagnato da un pensiero per le vittime. Tuttavia rispetto anche il silenzio se non è frutto di una vera indifferenza. La Settimana santa in cui stiamo per entrare è fatta proprio per il silenzio. Coloro che non vogliono esprimersi sui social, adottino nel silenzio, davanti alla Croce, il volto di una vittima, di un giovane universitario, di un venditore di simit, di un lustrascarpe, di un poliziotto turco ucciso l’altro ieri, nei mesi scorsi e lo porti con sé a Colui che ha sofferto, è morto ed è risorto.