Sguardo di Gesù su uomini, donne e bambinidi Sergio Astori
Che maschio è stato Gesù? Questa, in sintesi, l’interessante provocazione di Sergio Massironi, su «L’Osservatore Romano» del 6 febbraio 2016. Mentre s’impongono alle agende politiche e culturali infinite discussioni sull’essere maschi e femmine (sesso) e divenire ragazzi-uomini e ragazze-donne (gender), qualcuno finalmente guarda a Gesù. Non il Gesù storico, inquadrato secondo le discipline scientifiche, ma Gesù sempre vivo, l’uomo Gesù che ci guarda e ci interroga come un fratello.
Lui, che avendo consapevolezza d’essere il segno, sapeva d’essere stato prefigurato dai profeti come un figlio (maschio) concepito e partorito da una vergine (Isaia 7,14). Sapeva che il suo sesso era stato determinato prima d’essere concepito, nel doppio significato di «pensato» e «generato». Lo scrive Sergio Astori aggiungendo che certamente possiamo domandarci quale sia stato lo sguardo del Nazareno su uomini, donne, bimbi e bimbe, in un contesto con riferimenti certo più normativi e categorici del nostro tempo liquido, dalla maschilità e femminilità intercambiabili.
I vangeli mostrano chiaramente che il Figlio dell’uomo ha esercitato qualcosa di unico sulle persone del suo tempo, una forza calamitante. Interessante è che tale percezione sia messa sulla bocca di guardie — «Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo» (Giovanni 7, 46) — così come a guardie e a centurioni è attribuito di riconoscere tra i primi la soprannaturalità della morte del Cristo (Marco 15,39). Gli uomini delle armi e della guerra sentono che Gesù è un uomo la cui autorevolezza impone attenzione. È un uomo che arriva dentro le armature. Addirittura esercita una leadership agli orecchi e nei cuori di chi, per mestiere, deve dire sempre «Signorsì».
In un’altra parte del Nuovo Testamento è fatta esplicita menzione del dato che con la fede in Gesù Cristo «non c’è più uomo né donna» (Galati 3,28). È ovvio che il detto paolino non possa esser letto come l’esaltazione di un genere neutro, quanto piuttosto come il tracollo di distinzioni non più ultime in Cristo, come quelle, dice l’Apostolo, tra greco e giudeo, tra schiavo e libero. Esiste un livello più profondo per cui i differenti sono uno.
Nei testi biblici si trovano alcuni cenni al rapporto del Cristo coi suoi genitori. Immagino nuovamente la scena di Cana (Giovanni 2,1-12), quel «Non hanno più vino», bisbigliato dalla madre all’orecchio del figlio, preso forse a conversare coi suoi amici.
Con l’approssimazione inevitabile nell’applicare il metodo dell’ascolto clinico a una scena evangelica, credo si possa dire che questo figlio è stato educato a percepire la qualità sensibile delle relazioni umane. È stato rispettato e amato, ma anche provocato dalla sua stessa madre, in ragione della sua storia particolare; è stato aiutato a non diventare un «superbo chiuso nei pensieri del suo stesso cuore».
Perché parlo di lezione materna? Perché, senza alcuna pretesa di necessità, mi permetto di ritenere che le parole rivolte in seguito alla donna cananea (Matteo 15,28), che non accettava di vedersi rifiutare, in quanto straniera, un aiuto alla figlia indemoniata, Gesù a Cana le avesse pensate la prima volta proprio per sua mamma: «Donna, davvero grande è la tua fede». Per il Cristo che ci presentano i Vangeli, infatti, non c’è spazio per l’unica parola che in qualsiasi lingua ha una sorta di genere neutro: indifferenza.