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Come lavora un fotografo cattolico? Intervista a Matthew Lomanno

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SIMCHA FISHER - pubblicato il 28/01/16
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Quando intervisto artisti cattolici, in genere lascio che l’artista e il suo lavoro parlino da sé, ma visto che una delle serie fotografiche di Matthew Lomanno documenta la mia famiglia non posso fare a meno di sottolineare che il suo lavoro è splendidamente evocativo e presenta le cose belle, quelle brutte e quelle strane della vita con profondità, umorismo e pathos.

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Matthew Lomanno, 38 anni, non è sempre stato un fotografo. Lui e sua moglie Jessica si sono incontrati quando cantavano nel coro del liceo. Si sono sposati poco dopo la laurea e si sono trasferiti in Texas, dove Matthew ha iniziato a seguire un master in Filosofia e Jessica si è unita a Teach for America dopo una formazione breve e intensa a Houston.

La coppia ha vissuto a Houston per cinque anni prima di tornare nel New England, e nel frattempo insegnava, scriveva e portava avanti i propri studi mentre la famiglia cresceva.

Quando aveva poco più di vent’anni, Lomanno ha usato i soldi che gli erano stati regalati per i compleanni per comprare una semplice macchina fotografica, ritraendo soggetti come il suo bambino che dormiva o un vaso di fiori. Ha poi svolto lavori part-time nel settore, aggiornando gradualmente la sua strumentazione e migliorando le proprie capacità.

Si stava affacciando in lui l’idea di lavorare come fotografo a tempo pieno, e stava ancora consolidando l’idea quando è stato assunto da Parable, la rivista della diocesi di Manchester (New Hampshire).

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Nel 2011 è andato con gli studenti del Collegio Sant’Anselmo a lavorare con gli orfani disabili in Giamaica. Blessed Assurance è stata la prima serie di foto in bianco e nero che ha pubblicato.

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Ecco la nostra intervista dell’ottobre 2015:

Usi soprattutto macchine con la pellicola, non digitali. Qual è la differenza?

Con quelle digitali non c’è limite, solo quello che può contenere la mia memory card, mentre con la macchina a pellicola ho 36 foto per rullino, e c’è un processo per cambiare i rullini. Ogni foto costa. Essendo nato e cresciuto nel New England, ho una certa tendenza alla parsimonia.

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E allora perché usare la pellicola?

Dà un limite artistico. Nel mondo digitale ci sono infinite possibilità relative a quello che possiamo fare con un’immagine – scegliere il colore, manipolare qualsiasi parte si vuole. La pellicola – soprattutto quella in bianco e nero – mi limita in un modo particolare. Devo impegnarmi davvero a scattare quella foto. Questo mi permette di concentrarmi su ciò che sta accadendo.

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Uso lenti focali fisse, niente zoom. Potrei avere lenti diverse, ma non ho il range infinito di possibilità di zoom. Devo fare una foto con questa lente e con questa pellicola. Dandomi questi limiti, posso fare molto di più.

Cosa significa usare la pellicola in bianco e nero?

L’estetica è unica. Concentra l’occhio sulla forma delle cose. Si vede cosa sta accadendo in un modo speciale, senza distrazioni, che con il colore non si vede. A livello estetico, si guarda solo in termini di tonalità grigia. Si vede la varietà di riflessi e di toni in modo molto più chiaro, e si riesce a vedere davvero come si compone l’immagine.

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È così lontano dalla nostra esperienza quotidiana del mondo…

È questo che cerchi di fare come artista, portarci al di fuori della nostra esperienza quotidiana del mondo?

Sì e no. Uno dei miei fotografi preferiti dice che ogni volta che scatti una foto di una cosa l’immagine che ne risulta è una bugia. Cerca di allontanare dall’idea che ci sia una sorta di verità [oggettiva] nell’atto artistico.

L’oggetto [che si cattura] è bidimensionale: è quello che appare alla macchina. Il processo fotografico, il processo documentale, immagina come elaborare il contenuto in modo tale da realizzare una buona fotografia. Devo rendere questa fotografia più interessante della realtà.

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Come ci riesci?

Ero alla Marcia per la Vita, circondato da migliaia e migliaia di persone che la pensano allo stesso modo. Se avessi avuto una macchinetta digitale, avrei potuto tenere premuto il tasto per scattare e andare in giro, riprendendo quello che vedevo, ma non sarebbe stato intenzionale. Volevo mostrare le interazioni.

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C’erano forse una dozzina di contestatori a favore dell’aborto. È interessante per me, come cattolico, mostrare il tipo di segni che avevano i pro-choice rispetto agli antiabortisti. Un gruppo era piuttosto astioso, l’altro no. Non è il tipo di narrazione che sentirete da altre fonti.

Hai quindi una responsabilità particolare nel mostrare il mondo in un certo modo, come fotografo cattolico o come artista cattolico in generale? Hai il dovere di esprimere un’opinione o puoi aiutare a formarla?

Ogni buon artista dovrebbe avere in primo luogo un impegno a formare, a rendere belli gli oggetti. (…)

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Mi ci è voluto molto tempo per capire che non devo documentare solo le cose negative che accadono. Se guardate al mio lavoro, alla storia della Giamaica o alla Marcia per la Vita, questo tipo di progetti riguardano tutti cose positive che accadono, brava gente che fa un buon lavoro. È così che ho permesso alla mia vita intellettuale e di fede di modellare il mio lavoro in termini di contenuto. (…)

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Nella tua serie sugli ospedali, in quasi tutte le immagini c’è un contatto visivo tra le persone. È una cosa intenzionale – un modo per mostrare di che tipo di ospedale si tratta? Una sorta di essere pro-vita, al di là del crocifisso sul muro?

Come artista, sono in primo luogo impegnato a creare belle fotografie. In ospedale, quello che potevo fotografare erano le procedure mediche o il contatto umano, le interazioni umane.

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In un ospedale non si possono evitare le interazioni umane. Sono uno degli elementi principali.

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Nei tuoi lavori includi molti sottotitoli e testi. Come decidi se dire le cose con le parole o con le immagini?

È un equilibrio difficile. Bisogna essere succinti. C’è sempre di più da dire, e si contaminano sempre le immagini. Si vuole amplificare il contenuto, non cambiare la forma. In Humans of New York, il progetto fotografico più popolare di sempre, il successo non è dovuto alle fotografie, che sono buone, non ottime. Ci sono cinque o sei modi diversi per fotografare una persona, e la luce è sempre bella, ma si riesce a far sì che le persone dicano qualcosa al fotografo, in quanto estraneo, che non si direbbe all’amico più caro. È sorprendente.

E quando non riesci a inserire una disdascalia, come in un ritratto? Come controlli quello che stai trasmettendo con un’immagine di qualcuno che in realtà non conosci?

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La grande questione è essere aperti e ricettivi a tutto ciò che mi dà. Quando guardo attraverso l’obiettivo, vedo le persone in un modo in cui possono non vedere se stesse.

Cerco di non guidare troppo le persone, limitandomi a permettere loro di darmi quello che mi danno. Non introduco un livello artificiale nella situazione. (…)

Bisogna stare attenti alla questione della conoscenza in un ritratto. Solo per le persone che già conosciamo possiamo dire “Questa è vera somiglianza”. Se presento le foto dei tuoi figli a qualcuno che ha aspettative diverse, potrebbe pensare che siano bambini tristi perché nessuno di loro sorride. La gente mette molte delle proprie idee quando vede un ritratto. (…)

Hai insegnato molto. Che tipo di idee hanno gli studenti di arte?

Ho impartito due corsi al NH Institute of Art, etica e filosofia dell’arte, e quella degli studenti d’arte è una cultura molto diversa da quella a cui ero abituato.

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Ho cercato di farli pensare all’arte che stavano perseguendo, a ciò che la fa, o a qualsiasi arte, buona o meno. Ho cercato di farli pensare alla dicotomia tra forma e contenuto.

Gran parte della nostra comprensione attuale delle belle arti si riduce al contenuto. È onnipresente. Quando si parla agli studenti d’arte di un’opera specifica parlano di forma, ma quando parlano di arte in generale parlano di contenuto. Gli artisti dovrebbero trovare qualche approccio che nessun altro ha individuato prima, ma non viene insegnato loro a mettere bene insieme le cose – si suppone solo che esprimano le proprie idee o emozioni. Questa idea circola dai tempi di Platone, ma non penso che sia il punto di vista di Aristotele.

Qual è la visione dell’arte di Aristotele?

Platone e Aristotele non hanno scritto un trattato d’arte, ma se si leggono attentamente, soprattutto Aristotele, entrambi usano l’arte come esempio per altre idee. Ad esempio, quando Aristotele vuole parlare di quale natura c’è nella fisica, parla di un oggetto nell’arte. (…)

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Il mio obiettivo, attraverso la scrittura accademica, è produrre qualche esempio di pezzo più popolare sull’arte in varie forme. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele parla di due tipi diversi di attività umana: l’attività morale e l’attività artistica. Quella morale è fare, quella artistica è realizzare.

Alcune pratiche artistiche che svolgiamo ogni giorno sono cucinare la cena o impilare la legna. Tutto ciò che non è attività morale è attività artistica.

Oggi ho il beneficio, che non avevo prima di diventare un fotografo, di praticare intenzionalmente un’arte e di vederla dall’interno.

Progetti per il futuro?

La primavera scorsa non ho insegnato per la prima volta in undici anni. Non so cosa mi riservi il futuro. Non pensavo di arrivare a 38 anni come fotografo full-time, per cui non faccio previsioni sul futuro. La grazia di Dio è stata benevola, e quindi continuo a cavalcare l’onda.

 

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Matthew Lomanno e sua moglie Jessica, che scrive per Texas Right to Life, vivono con i loro quattro bambini, di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, nel New Hampshire. Nel 2013 Matthew ha fondato l’Amoskeag Studio per le arti visive e dello spettacolo. Sul suo sito web, matthewlomanno.com, si possono vedere molte delle sue fotografie. Posta spesso anche su Instagram, Twitter @mplomanno e Facebook su Matthew Lomanno Photography.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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