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Gesù usava le parabole per una ragione più enigmatica

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Dimensione Speranza - pubblicato il 21/01/16
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di Donato Bono

Si è soliti ritenere che l’utilizzo della parabola da parte di Gesù sia stato finalizzato ad una maggiore e più chiara comprensione del suo pensiero e del suo linguaggio: esponendo parabole, ossia racconti, metafore o comparazioni, attinti dall’esperienza quotidiana agricola e pastorizia o della pesca, gli ascoltatori, appartenenti per lo più al popolo semplice, venivano sollecitati a comprendere con facilità il messaggio sconvolgente del grande profeta di Nazareth. Sorprende, però, che nei vangeli le cose non stiano esattamente così. La presenza della parabola ha spesso una funzione enigmatica, tale da rendere meno comprensibile il parlare del Signore!

Leggiamo nel vangelo di Marco che «per quelli che sono fuori tutto avviene in parabole, affinché guardino, sì, ma non vedano, ascoltino, sì, ma non comprendano, perché non si convertano e venga loro perdonato» (Is 6,9-10), (Mc 4,11b-12; cf. anche Mc 7,17-18).

Matteo rincara la dose, affermando che il parlare parabolico di Gesù portava all’incomprensione: «Così si adempie per loro la profezia di Isaia, che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!» (Mt 13,13-15); e poco più avanti lo stesso evangelista afferma che il parlare in parabole è nella linea del compimento veterotestamentario: «Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Sal 77,2), (Mt 13,34-35).
L’evangelista Luca, da parte sua, conserva questa dinamica, e anche se meno densa rispetto a Marco, tuttavia, in riferimento alle parabole del regno, lega l’incomprensione alla cecità e durezza di cuore, nella linea della profezia di Isaia (cf. Lc 8,10).
Giovanni, dal canto suo, annota che la similitudine del buon Pastore, offerta ai suoi ascoltatori, produce l’incomprensione («…ma essi non capirono di che cosa parlava loro»: Gv 10,6b); e nel contesto intimo dell’ultima cena Gesù apre il cuore ai suoi, promettendo: «Queste cose ve le ho dette in modo velato, ma viene l’ora in cui non vi parlerò più in modo velato, e apertamente vi parlerò del Padre» (Gv 16,25).

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Qual è la verità? La parabola è utilizzata da Gesù per rendere più comprensibile il suo messaggio o piuttosto essa è volutamente oscura ed usata «allo scopo di escludere gli estranei dall’insegnamento riservato ai privilegiati?» (1).

Non c’è dubbio che nei vangeli si delinea una dicotomia tra quelli, cui è dato di comprendere il mistero e il senso della pa- rabola, e quelli che invece rimangono nell’ignoranza. Per Marco costoro sono quelli che sono fuori, nettamente distinti da quelli che erano con lui; in Giovanni la separazione è data dai Giudei increduli, ma anche dagli stessi discepoli, non più disposti ad andare con lui a causa della durezza del suo linguaggio (cf. Gv 6,60.66).

È interessante, innanzitutto, tener presente che l’incomprensione è legata alla profezia di Is 6,9-10, un testo profetico che riflette certamente il tempo storico del profeta Isaia, ma che la tradizione evangelica vede compiuto nell’evento altrettanto storico, relativo alla persona di Gesù. Si delinea così un dato sconvolgente: di fronte alla persona del grande ed ultimo profeta bisogna decidersi e collocarsi: o dentro il suo orizzonte spirituale ed esistenziale, che porterà alla comprensione e conversione; o totalmente e decisamente fuori. Non ci sono possibilità di sotterfugi o ambiguità. ” Le parabole di Gesù sembrano collocarsi proprio dentro questo quadro ermeneutico. Quella delle parabole, infatti, è una, logica schiacciante, a volte anche fuori o contro ogni schema umano, e come tale va accettata mediante un atto di piena fiducia e totale abbandono. Il dire parabolico spesso è volutamente paradossale, al fine di invitare il lettore o l’ascoltatore a decidersi e a convertirsi alla logica di Dio (2).

Nel caso, per esempio, della parabola degli operai della vigna o del padrone generoso (cf. Mt 20,1-16) (3), in cui gli ultimi sono pagati quanto i primi, inizialmente lo stesso lettore ne rimane scandalizzato, ma poi è invitato dalla dinamica del racconto a convertirsi alla logica della gratuità di Dio. Ma anche nella parabola lucana cosiddetta delFigliol prodigo, o meglio dei due figli o del Padre misericordioso, il lettore è quasi tentato di abbracciare il ragionamento del fratello maggiore, per poi venire decisamente schiacciato dalla logica dell’ amore e della fratellanza, espressa dal Padre. Analogamente nella parabola dei talenti (cf. Mt 25,14-30) o delle mine (cf. Lc 19,12-27), l’ultimo servo fa un ragionamento umanamente credibile, impostato sulla logica del tanto mi dai, tanto ti do, per poi rivelarsi del tutto infingardo, perché per nulla provocato dalla dinamica dell’abbandono e della fiducia. Altrettanto sconvolgente l’atteggiamento del padrone nei confronti del servo invitato alle nozze che decide di non indossare l’abito nuziale (cf. Mt 22,1-14; cf. anche Lc 14,15-14), o delle vergini che rimangono fuori, perché non avevano con sé l’olio (cf. Mt 25,1-13).

In definitiva, le parabole di Gesù sembrano utilizzare un linguaggio volutamente provocatorio, per invitare l’ascoltatore a realizzare quel salto qualitativo che lo provochi alla conversione, ossia a passare dalla logica degli uomini a quella di Dio. Per questo, probabilmente, gli evangelisti insistono sull’incomprensione, legata alla durezza del cuore e alla cecità degli occhi, perché solo attraverso la guarigione della fede, operata da Gesù, l’uomo può accogliere l’invito nuovo e originale di Dio. Nel linguaggio delle parabole Gesù rivela il cuore di Dio, e lo fa in maniera tale da spiazzare l’uomo, affinché questi si accorga che i suoi ragionamenti e le sue logiche, troppo umane e perciò troppo lontane da Dio, hanno bisogno di conversione.

Attraverso un’ analisi esegetico-spirituale di ciascuna parabola, percorrendo l’intero racconto, è possibile cogliere lo scopo e l’obiettivo della narrazione, che certamente è di provocare al cambiamento del cuore l’esistenza dell’uomo credente, guarito da Gesù e aperto nella fede all’accoglienza della Grazia.

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1) Cf. al riguardo V. Fusco, Parola e regno. La sezione delle parabole (Mc. 4,1-34) nella prospettiva marciana, Brescia 1980, p. 151; Id., Oltre la parabola, Roma 1983, pp. 141ss
2) Cf. l’opinione differente di A. KEMMER, Le parabole di Gesù. Come leggerle, come comprenderle, Brescia 1990, pp. 12-14.
3) Così, ad esempio, la titolano G. DE VIRGILIO – A. CIONTI, Parabole di Gesù. Itinerari: esegetico-esistenziale; pedagogico-didattico, Trapani 2007, p. 69. Altrettanto complicata è la titolazione delle parabole e spesso i titoli comunemente dati ai racconti parabolici non sono confacenti alla dinamica del racconto, al suo significato e al messaggio.

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