L’autore di “Quo vado?” e degli altri film del comico pugliese racconta la sua conversione e il “filo” che lega il pontefice a ZaloneDietro le quinte c’è un uomo che in pochi conoscono. Ma in realtà è la mente di un successo straordinario.
Come in molti sapranno il nuovo film di Checco Zalone “Quo vado?”, ha battuto ogni record di incasso al botteghino. Se l’interpretazione del comico pugliese è ben nota a tutti, la figura dell’autore e regista del film è tutt’altro che conosciuta: si tratta di Gennaro Nunziante.
Un uomo che gira al largo da red carpet e ospitate televisive. E di lui probabilmente non sapremmo niente se Zalone non si premurasse di sottolineare l’apporto decisivo del suo socio e amico di scrittura Nunziante.
INQUIETUDINE SENZA RISPOSTE
Nunziante racconta al settimanale Credere (20 gennaio) il suo incontro con la fede. «Da giovane ho frequentato un oratorio salesiano: qui ho conosciuto un prete che mi ha fatto leggere alcuni libri di cinema e portato a vedere dei film. Però la fede non è arrivata in quegli anni: all’epoca la mia era più che altro partecipazione a dei rituali. La conversione vera è arrivata in età adulta, attraverso un percorso di grande dolore: mi sono reso conto che volevo avere tutto ma che, al contempo, tutto era niente. Iniziai a percepire dentro di me un’inquietudine a cui non sapevo dare risposta».
OSSERVARE SE STESSI
Poi, prosegue Nunziante, «di colpo ho cominciato a intuire cosa mi ero perso per strada. Il mio è stato un percorso molto semplice basato, più che sulla meditazione di testi teologici, sull’osservazione della vita alla luce della fede. Ho iniziato così a fare un lavoro dentro di me, stando però molto attento a un concetto: spesso noi cattolici commettiamo l’errore di vantare una maggiore conoscenza presunta della vita. Una superiorità che sinceramente non so nemmeno dove sia di casa: io mi sento un ipocrita che si alza la mattina e chiede pietà di sé al Signore per la pochezza d’uomo che sono».
DOLORE E LIETO FINE
Una prospettiva che gli permette di non scadere nel cinismo o nell’invettiva sociale, tipici invece di molti film comici. «Preferisco accanirmi su di me e raccontare le mie falsità, anche perché conosco molto meglio le mie ipocrisie, che non quelle degli altri. Per anni un certo cinema pseudo autoriale ci ha raccontato storie di amarezza e aridità. Io provengo da una famiglia povera e ho conosciuto il mondo dell’amarezza ma le assicuro che il finale è lieto perché il dolore ti segnala che devi cambiare qualcosa nella tua vita».
LA RIVELAZIONE DI DIO
Un finale lieto che ispira anche i film che scrive. «E’ lieto perché lo scopo della nostra vita è la gioia. Io stesso, a distanza di anni, mi sono ritrovato a rivalutare alcuni episodi terribili della mia vita, perché mi sono accorto che erano dei campanelli di allarme necessari perché io poi potessi gioire. Questo, peraltro, dimostra come l’uomo abbia un senso molto grossolano (per non dire errato) di ciò che è male e di ciò che è bene. Eppure proprio questa nullità dell’uomo, questo suo essere niente, è rivelazione di Dio e il cinema dovrebbe avere l’umiltà di inchinarsi davanti alla pochezza umana. Quanto al finale di una storia, lo vivo come un crocevia dove devo scegliere tra un’aggressione finale a un uomo oppure un abbraccio, all’insegna del “possiamo migliorare e cambiare insieme”».
OSPEDALE DA CAMPO
Nunziante sceglie sempre questa seconda strada «perché è così che sono stato accolto quando sbagliavo: pur facendomi notare l’errore, qualcuno mi ha sempre teso una mano e aiutato ad andare avanti. E in fondo è questo il grande richiamo di Papa Francesco quando parla della Chiesa come un ospedale da campo. So di non avere l’appeal del cineasta impegnato, ma non mi interessa perché non mi rappresenterebbe. Io sono figlio di una comunità fatta di amici, solidarietà e accoglienza: così sono cresciuto e così considero la vita, e pazienza se qualcuno mi taccerà di buonismo».