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«Chi è mio prossimo?»: questioni di punto di vista

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Aggiornamenti Sociali - pubblicato il 12/01/16
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La parabola del buon Samaritano mi riguarda?di Matteo Crimella

 

L’espressione è entrata addirittura nel linguaggio comune: dire che qualcuno si comporta da “buon samaritano” è riconoscergli un certo modo di agire, attribuirgli un compito ben preciso all’interno del contesto in cui opera. È il volontario che si prende cura del bambino o dell’anziano, sono i membri di un’associazione che intervengono per affrontare un’emergenza, è la Caritas che sostiene le famiglie che non arrivano a fine mese, solo per fare alcuni esempi. Pare, infatti, che il personaggio descritto dalla parabola di Gesù crei un paradigma di comportamento capace di interpretare la gratuità, la dedizione, l’attenzione a chi soffre. In effetti la parabola ha ispirato i cristiani di ogni tempo e di ogni latitudine a operare a favore delle persone, senza confini di razza, religione, appartenenza.

Il racconto di Gesù mette in scena un episodio di brigantaggio, senza avere alcuna pretesa di essere un’analisi economico-sociale; la narrazione ha qualcosa di pittoresco, ma non v’è nulla che assomigli a una riflessione scientifica. La parabola però continua a inquietare, non smette di suscitare domande, certamente affascina. Riprendere in mano oggi questo brano evangelico significa lasciarsene provocare ancora una volta e interrogarsi sul senso delle iniziative che si ispirano a esso e sul modo in cui sono svolte.

Luca 10,25-29

25 Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». 29Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».

Un incontro

La parabola è inquadrata dentro una cornice, il dialogo fra un dottore della Legge e Gesù (cfr Luca 10,25-29.36-37). V’è anzitutto un’ostilità nascosta da parte del dottore; Gesù lo ignora ma non i lettori, informati dal narratore a proposito delle intenzioni dell’uomo: egli si reca dal maestro per metterlo alla prova e, benché ponga una domanda colma di profondità e di intelligenza, non è mosso da intenzioni sincere.

Secondo lo stile rabbinico si risponde a una domanda con un’altra domanda: in questo modo Gesù provoca il dottore della Legge esattamente sul terreno di sua competenza e all’uomo non sembra vero di poter rispondere prontamente. Il dottore della Legge compie un singolare accostamento: da una parte ricorda l’amore di Dio (citando Deuteronomio 6,5), dall’altra pone l’accento sull’amore per il prossimo (citando Levitico 19,18). La forte insistenza sulla totalità della dedizione a Dio (tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la forza, tutta la mente) è impressionante. Se scopo del dottore era mettere alla prova Gesù, il lettore è obbligato a osservare che egli, pur ignorando le intenzioni del suo interlocutore, non solo non è caduto nella trappola ma, per mezzo della sua domanda, ha operato una vera e propria inversione dei ruoli. A essere messo alla prova è stato proprio il dottore della Legge, con un evidente effetto ironico. E per quanto l’uomo abbia dato prova di una notevole perizia, da interrogante è passato a essere interrogato.

A fronte dell’accostamento fra amore di Dio e del prossimo, Gesù tira le conseguenze: Fa’ questo e vivrai! (10,29). Ma la nuova domanda del dottore della Legge (E chi è mio prossimo?) obbliga Gesù a cambiare strategia. Da una parte Gesù non può sottrarsi a rispondere, dall’altra non può né vuole offrire una definizione (del tipo: il prossimo è il fratello!); racconta invece una parabola, cioè una storia fittizia che per sua natura coinvolge l’ascoltatore e lo obbliga a tirare alcune conclusioni logiche (cfr il riquadro).

Il lettore moderno, un po’ avvezzo all’ermeneutica, ha a disposizione più d’una chiave per interpretare la parabola.

Luca 10,30-37

30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.
36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

Il samaritano

La prima lettura s’interroga su ciò che sta dietro la parabola. Al cuore di questa interpretazione sta la figura del samaritano. Protagonista del racconto fittizio è un uomo, un uomo qualunque, senza nome né identità. È stato appena assalito dai briganti e spogliato delle sue vesti. Il vestito è un forte segno di riconoscimento sociale, sicché spogliare una persona non significa solo umiliarla, ma anche privarla di qualsiasi segno di appartenenza, cioè dell’identità. A fronte della violenza dei briganti verso il viandante, scatta nel lettore un duplice sentimento: una chiara antipatia per i banditi e una profonda empatia nei confronti del ferito. Ma il narratore fa sorgere pure un altro effetto, quello della tensione narrativa nella forma dell’attesa per la sorte del ferito, cioè un meccanismo di identificazione col povero malcapitato.

Sulla strada che scende da Gerusalemme a Gerico camminano un sacerdote e un levita. Luca raddoppia i personaggi, dando vita a due tipi perfettamente identici. Fra il viandante ferito e il sacerdote si instaura una sorta di solidarietà legata alla condivisione puramente casuale di una stessa esperienza: ambedue sono in cammino e percorrono la medesima strada. Il lettore si aspetta un’azione: ora, finalmente, avverrà, quanto deve avvenire! Ma così non è. Frustrando l’attesa, la suspense si trasforma in sorpresa: il sacerdote passa accanto al ferito e lo supera, senza prendersi cura di lui. Il levita poi fa esattamente la stessa cosa, a spese del ferito, il quale vede sfumare per ben due volte la possibilità di un soccorso.

A proposito dei motivi che hanno spinto sacerdote e levita a quella scelta si sono versati fiumi d’inchiostro: il sangue li renderebbe impuri (essi però non stanno andando a Gerusalemme per il culto ma scendono verso Gerico); lo sconosciuto malcapitato non dovrebbe essere annoverato nella categoria del “prossimo” (secondo una stretta interpretazione di Levitico 19,18); il pover’uomo era morto o stava per morire (i sacerdoti non possono toccare i morti secondo Levitico 21,1-4). E tuttavia ogni ragione accampata non tiene di fronte all’urgenza della situazione.

A questo punto v’è un’ulteriore sorpresa. Alcuni testi giudaici usano nominare tre categorie di persone: sacerdoti, leviti e Israeliti. L’uditore attende che dopo il sacerdote e il levita giunga presso il ferito un israelita; e invece si presenta un samaritano. Che fra giudei e samaritani non corresse buon sangue è cosa nota (cfr Giovanni 4,9). Considerando un poco il contesto lucano, lo stupore aumenta ancor più: quando infatti Luca informa che Gesù ha fatto duro il suo volto (9,51) e si è diretto decisamente verso la Città santa, la prima tappa del viaggio è stato un villaggio di samaritani. Essi però non lo hanno ricevuto perché era in cammino verso Gerusalemme (cfr 9,52-53). Ebbene: nonostante sia stato rifiutato dai samaritani, Gesù sceglie come eroe della sua parabola proprio un samaritano!

Gesù caratterizza la reazione del samaritano con un verbo davvero singolare (10,33): egli è preso da compassione (il verbo greco utilizza una radice che richiama le viscere, cioè i sentimenti più profondi). In Luca il verbo caratterizza l’intensa emozione di Gesù di fronte alla donna vedova che ha perso il suo unico figlio (cfr 7,13); inoltre l’evangelista utilizza lo stesso verbo per esprimere lo slancio del padre allorché vede il figlio prodigo che si sta avvicinando (cfr 15,20).

L’olio e il vino versati sulle ferite del povero malcapitato sono i medicamenti dell’epoca. Scrive Ippocrate: «Dopo aver immerso le foglie di aro nel vino e nell’olio si applicano sulla ferita tenendole strette con una benda». I due denari, che il samaritano ha sborsato al locandiere in favore del ferito incontrato per caso sulla sua strada, erano sufficienti per alloggiare nell’albergo (allora una specie di ospedale) almeno due settimane.

In conclusione: questa lettura mostra la differenza tra il samaritano che si prende cura del malcapitato ferito e il sacerdote e il levita che invece passano oltre. Questa lettura non è scorretta: tutti gli elementi contestuali citati concorrono a un’interpretazione che pone in luce il funzionamento della parabola. Tuttavia rimane irrisolta una questione. Nel momento in cui si intende passare dal racconto fittizio alla realtà da esso intesa, si vuole cioè istituire un ponte fra la parabola e la vita, il rischio è il moralismo. Il samaritano è l’esempio di una carità straordinaria! Ma, ci si chiede come sia possibile comportarsi allo stesso modo, in base a che cosa sia possibile fare lo stesso. Proprio questo è il limite di questa interpretazione: puntando sull’esemplarità del samaritano, rimane come a mezz’aria, senza offrire al lettore altro che un esempio straordinario.

La vittima soccorsa

Esiste però un’altra lettura. Essa si chiede: da quale punto di vista Gesù ha raccontato la parabola? Forse dal punto di vista del samaritano? Certamente no: solo alla fine (cfr Luca10,36-37) v’è il passaggio. Il punto di vista dal quale Gesù ha raccontato la parabola è quello del ferito. In altre parole, tutto avviene secondo i suoi occhi. La parabola non punta all’esemplarità del samaritano ma cerca di fare entrare l’ascoltatore (e il lettore) nella pelle del ferito, nell’esperienza traumatica di quest’uomo senza volto e senza nome.

Anzitutto l’uomo aggredito dai briganti non ha identità, è cioè un membro dell’umanità, il che facilita l’identificazione con il lettore. Inoltre non si sa perché il sacerdote e il levita, vedendo il ferito, passano oltre senza fermarsi. Il narratore non lo dice e ci si interroga sul motivo di tale silenzio. Se però, come abbiamo ipotizzato, il punto di vista è quello del ferito, è quasi ovvio che il racconto riveli solo ciò che questi può sapere. Egli constata unicamente che il sacerdote e il levita (riconoscibili dal loro abito) non si sono presi cura di lui; egli fa solo questa amara constatazione senza poterla spiegare, in quanto è una vittima! La parabola, invece, abbonda di particolari solo nel momento in cui il viandante ne può disporre. E quell’uomo sa bene che cosa gli ha fatto il samaritano; i dettagli sono precisi: olio e vino sulle ferite, giumento, locanda, denaro. In breve, il lettore vede con gli occhi del ferito. Quando, infine, Gesù interroga il dottore della Legge: Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti? (10,36), il lettore ha in mano la chiave per capire da che punto di vista la parabola è stata narrata. L’identità del prossimo non più definita a partire dal donatore, ma a partire dal beneficiario.

A partire dalla misera situazione di una vittima si comprende chi è il prossimo, non da una definizione teorica. Per permettere al lettore di capire il capovolgimento dell’interrogativo relativo al prossimo c’era bisogno di un racconto che facesse entrare il lettore nella pelle di un essere umano in quella condizione disperata.

Qualche spunto finale

La prima interpretazione della parabola, puntando sull’esemplarità del samaritano, propizia modelli di comportamento, descrive profili ideali, dà forma a una narrativa che indugia sull’eccezionalità. Pare essere una strada vincente, ma corre due rischi: anzitutto la costruzione di un modello ideale altissimo ma disincarnato, lontano dalle mediazioni di cui necessita la società attuale; il secondo rischio è più profondo ed è l’autoreferenzialità che pone al centro delle relazioni non l’altro (nella sua concreta sofferenza) ma se stessi. La seconda interpretazione, invece, spinge a prendere le mosse dalla situazione concreta, a entrare nelle pieghe complesse dell’esistenza, ad assumere un atteggiamento empatico, in una parola conduce alle periferie esistenziali. Chi sia il prossimo non lo si definisce a tavolino, nemmeno si può decidere quale sia il suo bisogno. Entrare nella pelle dell’altro chiede una maggiore disponibilità, domanda di tenere i piedi per terra, obbliga a guardare la realtà nella sua cruda complessità, ma solo percorrendo questa strada si conoscono le reali necessità delle persone e si compie un cammino di umanizzazione. L’apprendistato della carità passa attraverso un’immersione nella storia ferita degli uomini e delle donne, senza la cui condivisione non si dà autentica prossimità.

Si tratta di un cambiamento di prospettiva, indubbiamente: esso tuttavia è necessario per evitare di moltiplicare gli auspici a seguire un modello esemplare, senza fare i conti con la realtà degli uomini così come sono e là dove essi sono.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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