Un colloquio con lo studioso della complessità, Nino ArrigoLa recente scomparsa del grande pensatore francese René Girard (avvenuta lo scorso 4 novembre 2015) costringe tutti, e in particolare i credenti, ad una riflessione profonda sui suoi scritti e sulle sue teorie. Girard infatti è stato certamente uno dei protagonisti degli ultimi trent’anni del dibattito antropologico, filosofico e sociologico e lo ha fatto sia da una posizione di cristiano, una rarità in certi ambiti, sia in qualità di difensore del fenomeno religioso in generale e della forza rivelatrice della Bibbia in particolare. In Italia c’è una tradizione forte di studiosi, di diverse estrazioni anagrafiche e metodologiche, che quel pensiero lo smontano e lo rimontano, lo discutono e cercano di trarre nuova linfa e nuovi saperi. Uno di questi studiosi è Nino Arrigo, ricercatore presso l’Università di Enna, che ha da poco licenziato un volume sullo studioso francese dal titolo: “René Girard. Cristianesimo, etica, complessità nella società globalizzata” edito da Rubbettino.
Benedetto Croce disse della civiltà occidentale che essa “Non può non dirsi cristiana”, Girard coglie la sfida ed elabora una complessa e “totalizzante” teoria della cultura umana. E’ così?
Arrigo: Benedetto Croce, nella sua appassionata perorazione “laica” del cristianesimo (apparsa per la prima volta sulla Rivista “La Critica” il 20 novembre 1942), sembra una sorta di antesignano dell’ermeneutica contemporanea. Non possiamo non dirci cristiani perché il nostro Linguaggio, le nostre parole, la nostra “mitologia” (impossibile non pensare a tal proposito al Vico a lungo studiato da Croce), sono contenute in un orizzonte di senso, in una “tradizione” per dirla con Gadamer, di matrice cristiana. La nostra esistenza, “storica e concreta” di europei occidentali, è stata infatti scandita dal tempo liturgico che asseconda il ritmo delle stagioni. Un tempo liturgico che annuncia la nascita di un fanciullo divino, salvatore del mondo, morto come una vittima innocente e, in seguito, risuscitato. Il cristianesimo ha scandito le nostre esistenze (o, meglio – senza avanzare pretese assolutizzanti – le esistenze di coloro che hanno ricevuto un imprinting cristiano) con la potenza di un mito vichiano. E non è un caso che sia Gianni Vattimo, ad aver ripreso Croce e scoperto Girard nella sua personale declinazione del cristianesimo (cui non disconosce, nonostante tutto, un orizzonte di senso cattolico). Un cristianesimo laico e “fuori dalla religione” che deve molto, per sua stessa ammissione, alla scoperta girardiana del cristianesimo inteso come fine del sacro e all’ermeneutica di matrice heideggeriana e gadameriana. Girard, dal canto suo, coglie la sfida, senz’altro, ma senza mai riconoscere totalmente le posizioni di Vattimo (che riporta il cristianesimo sui binari della secolarizzazione), e rimanendo un appassionato apologeta della fede cattolica. Fede che convive, nella sua teoria unitaria (e “totalizzante”) sull’origine della cultura umana, con un approccio scientista, al riparo dal positivismo e dal funzionalismo strutturalista (quest’ultimo oggetto di feroci critiche già a partire da La violenza e il sacro) e memore delle più avvertite posizioni dell’epistemologia contemporanea.
René Girard ha riportato l’attenzione degli studiosi sul sacro e sulla religione, dopo decenni in cui si predicava in ogni università della “morte di Dio”, oggi dopo oltre 30 anni, il sacro è tornato al centro delle pagine dei giornali che discettano da un lato di encicliche e gesti papali e dall’altro delle divisioni tra Sciiti e Sunniti e il ruolo del Corano nella giustificazione del terrorismo…
Arrigo: È vero. A Girard va tributato il merito, tra l’altro, di aver focalizzato l’attenzione – nell’era della secolarizzazione e della morte di Dio – sulla religione, sul suo fondamentale ruolo nell’economia della conoscenza e delle scienze sociali. Forse potremmo dire che l’avignonese abbia condotto la religione, dalle pagine del catechismo a quelle delle scienze umane e sociali. E, in un’era segnata dal nichilismo, è anche riuscito a riportare il dibattito sociologico e filosofico sul terreno, concreto, della realtà. Una realtà che rimane pur sempre aperta e suscettibile di interpretazioni ma che, tuttavia, non è priva di fatti. Quella indicata dal pensatore francese è stata, dunque, una terza via, distante tanto dalle posizioni di certa ermeneutica filosofica, quanto dalle rigide posizioni dei positivisti, ancora convinti che esistano soltanto i fatti. In realtà – come afferma Girard – “esistono sia i fatti sia le interpretazioni”. Oggi la teoria mimetica girardiana trova applicazioni in diversi campi del sapere e rappresenta un ottimo antidoto contro quegli epigoni di uno scientismo positivista sempre più riduzionista e incapace di cogliere la complessità del reale. Ed è in grado di offrire degli spunti molto interessanti anche sull’attuale scontro religioso in atto tra l’Occidente cristiano e l’Islam, in un panorama mondiale in cui sembra prevalere il conflitto mimetico, pronto a degenerare in una prospettiva apocalittica. Ed è in questa prospettiva che si innesta la riflessione di Girard sul cristianesimo, a partire dal suo secondo importante testo: Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978), sino ad arrivare al più recente (2007) Portando Clausewitz all’estremo. Non sono totalmente d’accordo, invece, sulla netta cesura posta da Girard tra il giudeo-cristianesimo e le altre tradizioni religiose in una prospettiva di emancipazione dalla violenza e dal sistema del sacrificio. Anche il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, è un Dio capriccioso e violento, capace di ricorrere alla vendetta e al sacrificio. Allo stesso modo non ritengo che il Corano possa giustificare il terrorismo. La violenza è propria dell’uomo, di tutte le religioni e di tutte le latitudini. È insita nel cuore umano. Uno dei meriti di Girard consiste appunto nell’aver posto l’attenzione sugli aspetti negativi del mimetismo nelle relazioni umane, quelli che conducono alla rivalità ed alla violenza estrema. Con buona pace dei buonisti contemporanei.
Nel tuo volume applichi una critica molto incisiva alla teoria di Girard sul desiderio, puoi spiegare brevemente in cosa consistono questi limiti e cosa invece ha ancora pieno funzionamento?
Arrigo: L’opera di Girard sembra costituire un “monolito” che contiene due elementi fondamentali: La teoria del “sacrificio” e la teoria del “desiderio mimetico”. Nessuna evoluzione interna degna di nota sembra segnare l’opera del pensatore francese (fatta eccezione per le recenti prese di posizione all’insegna di una vigorosa apologia della fede, per cui forse si potrebbe ipotizzare un “secondo Girard”). La teoria del desiderio, quasi interamente desunta dallo studio del romanzo moderno, contenuto nella sua opera prima (Menzogna romantica e verità romanzesca), viene quasi “meccanicamente” giustapposta all’analisi dei miti greci di Edipo (attraverso la lettura dell’Edipo re di Sofocle) e di Dioniso (attraverso la lettura delle Baccanti di Euripide), prima, della Bibbia, poi.
Da queste premesse Girard sviluppa una teoria dell’origine della cultura (a partire dal “sacrificio”) che non può non presentare aporie e riduzionismi. La teoria del desiderio, desunta dalla modernità capitalistica di cui è, con ogni probabilità, un prodotto, viene applicata – forse con troppa disinvoltura – all’origine della cultura stessa.
Nonostante la chiarezza della logica girardiana, risulta infatti difficile immaginare che all’alba dell’origine della cultura gli ominidi, scimmie appena evolute, siano capaci di desideri che non siano “appetiti” prodotti dell’istinto. Il desiderio mimetico girardiano è già il “desiderio antropogeno” di cui parla uno dei più acuti commentatori della Fenomenologia dello spirito di Hegel: Alexandre Kojève.
La teoria mimetica, inoltre, troppo appiattita sul modello, sembra relegare l’oggetto del desiderio ad un ruolo eccessivamente marginale rimanendo, ancora, troppo confinata nell’ambito rivalitario delle dinamiche edipiche. Nonostante le rigide prese di distanza dello stesso Girard.
A differenza di Lévi-Strauss – che trasforma il divieto dell’incesto in una prescrizione positiva – Girard si rende conto, proprio con Freud, che il divieto ricade sulle donne più accessibili agli uomini del gruppo, quelle “più a portata di mano”, ma aggirando sempre l’ostacolo della pulsione fisica (onde incappare nel complesso freudiano) e puntando su quella rivalità mimetica, che rimprovera a Freud di non riconoscere fino in fondo. Anche gli ominidi in via di evoluzione, dunque, piuttosto che desiderare fisicamente le donne “a portata di mano” – onde evitare di “peccare” di parricidio e incesto – finirebbero, secondo Girard, per desiderare mimeticamente gli oggetti (in questo caso le donne) indicati dal “modello”. Girard si è sempre definito un appassionato seguace dell’evoluzionismo darwiniano, ma qui il suo evoluzionismo sembra zoppicare un po’. Forse pretendere che delle scimmie in via di evoluzione applichino i divieti d’incesto per evitare la spirale di violenza, è concedere troppo a degli animali in via di evoluzione. Gli ominidi girardiani sembrano assomigliare più ai frequentatori dei salotti proustiani di Combray che a delle scimmie un po’ evolute. Il desiderio girardiano è forse ancora troppo “metafisico” per fondare un’ antropologia radicata nell’animalità.
Nonostante tali possibili aporie, tuttavia, l’opera girardiana si rivela di particolare interesse nella direzione della “costruzione” di una “razionalità complessa”. Una razionalità che includa la parte demens (l’invidia, e il risentimento scandagliati dalle interessanti analisi giarardiane) di Homo sapiens. L’opera del mitologo francese potrebbe essere infatti considerata un’ “inclusiva enciclopedia antropologica”, alla stregua dell’opera vichiana. Una “nuova scienza dell’uomo”, volta al recupero della religione e del mito. L’attenzione verso questa nuova scienza dell’uomo, viene declinata da Girard anche attraverso la curiosità nei riguardi delle acquisizione del paradigma della complessità e della scienza contemporanea. La stessa logica “circolare” dell’origine della cultura per cui “è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra…ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse”, troverebbe degli analoghi nelle “polilogiche della complessità”, (per dirla col filosofo Gembillo) piuttosto che nella linearità della logica classica. In netta contrapposizione con lo strutturalismo di Lévi-Strauss, che individua nell’arbitrario la principale cifra del simbolico, l’ipotesi girardiana postula, piuttosto, l’origine del pensiero simbolico a partire dal sacrificio della vittima, nello “stupore” e nella “commozione” che ne seguono. In tal modo anche Girard, alla maniera di Giambattista Vico, sembra suggerirci che la prima forma di conoscenza della realtà, da parte dell’uomo, sia di natura estetica. E seguendo questa via, l’ipotesi girardiana risulterebbe persino accostabile al cosiddetto “costruttivismo radicale”. È il sacrificio della vittima ad “inventare”, infatti, la realtà, storica e determinata, in cui ci muoviamo.
Secolarismo e cristianesimo sono in antitesi? C’è un secolarismo “buono”?
Arrigo: Non sono in antitesi, almeno non per forza. Se il cristianesimo, a voler seguire Girard, ci conduce fuori dal sistema del sacro e della violenza, allora il secolarismo che ne consegue non potrà che essere un prodotto del cristianesimo. Possiamo dire, forse, che il secolarismo è un po’ come il colesterolo. Quello “buono” ci conduce ad un’etica cristiana e ad una via d’uscita dal sacro nel rispetto dell’importanza dello stesso. Quello “cattivo” si nutre ancora del mito di una ragione scientifica e illuministica incapace di dominare la complessità del reale. In tal senso è di grande attualità l’auspicio di Benedetto XVI di un dialogo tra fede e ragione, tra Atene e Gerusalemme, nella costruzione di una nuova Europa spirituale.
Girard propone all’umanità una lettura apocalittica del reale che parte dal potere disvelante della Croce: non ci sono più capri espiatori, ognuno è responsabile delle proprie azioni quindi o si sceglie Cristo (la non violenza, l’amore, la solidarietà gratuita) o si sceglie Satana (l’oppressione, la violenza, la crisi mimetica), da qui un’etica che assomiglia all’ecologia umana o integrale di cui parla Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato Si’”?
Arrigo: Girard sembra declinare la kenosis del divino in termini senz’altro meno ottimisti di Vattimo, facendo esplodere, piuttosto che componendo, tutte le sue ambivalenze. Il cristianesimo girardiano diventa, così, un’ esperienza apocalittica dove “più si va verso un mondo in cui il rito è morto, più quel mondo si fa pericoloso”. Un mondo senza il sacro e la violenza è, paradossalmente, un mondo più pericoloso, perché non ha più i mezzi e i riti per esorcizzare la stessa violenza. In tal senso anche la “guerra fredda” postmoderna potrebbe essere letta come un residuo dell’ordine sacrificale. Il sentimento della fine che porta con sé il cristianesimo apocalittico è, tuttavia, “ben lontano”, come afferma Girard, dalla fine della storia, annunciata da Fukuyama, come “ultimo virgulto dell’ottimismo hegeliano”. Il cristianesimo, dunque, desacralizzando la “falsa trascendenza” del meccanismo vittimario, espone il mondo ad una violenza tanto inusitata quanto inedita, il cui epilogo non promette alcun lieto fine. La riflessione girardiana, a questo punto, sembra aggrovigliarsi in una sorta di nodo gordiano. Senza un’ apparente via d’uscita. Sarebbe, infatti, la violenza del sacro sconfitto dal cristianesimo a garantire ancora, paradossalmente, la pace. È nel più recente Achever Clausewitz (Portando Clausewitz all’estremo, in traduzione italiana) che Girard teorizza una “ragione apocalittica” portando alle sue estreme conseguenze le tesi espresse dal generale prussiano nel suo trattato Della guerra. Siamo qui di fronte all’ultimo Girard, quello che teorizza un Papa imperatore alla guida di una nuova “Europa spirituale” in grado di salvaguardare la razionalità (e la civiltà) occidentale. Una razionalità dove la fede dialoghi con la ragione e dove la religiosità giudeo-cristiana possa convivere con la filosofia nata in Grecia. Un Papa condottiero di una Chiesa custode della Rivelazione che con una mano “rivela”, e con l’altra occulta, copre, dissimula. Con una “dissimulazione onesta”, finalizzata ad esorcizzare l’apocalisse e la tendenza all’estremo sdoganate dalla rivelazione cristiana. E neppure Dante – esplicitamente citato da Girard – avrebbe osato tanto. Lui che, guelfo bianco, aspettava un imperatore messia che salvasse la Chiesa del suo tempo dalla corruzione. Il ragionamento girardiano si fa dunque tortuoso e, incapace di intravedere soluzioni migliori, si accontenta del dogma dell’infallibilità papale, con espliciti richiami a de Maistre e con un’ intensa perorazione del discorso di Ratisbona, pronunciato da Benedetto XVI in un momento storico delicato di lotta al terrorismo planetario.
Ma è anche vero che la riflessione di Girard introduce le sfide di un’etica che assomiglia all’ecologia umana o integrale di cui parla Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato Si’”. Un’etica cristiana, ma anche “paradossalmente laica”. Un’etica che, recuperando la religione, potrebbe essere declinata persino alla luce del “pensiero ecologico”. Alla stessa maniera del pensiero “sistemico-ecologico”, infatti, anche la teoria girardiana sembrerebbe ricollocare l’uomo in un universo terreno, proprio affinché non sfugga ad impegni etici. Nonostante il vocabolario della fede, il discorso girardiano sembra proprio raccogliere le sfide etiche del “pensiero ecologico” di un Edgar Morin o di un Bateson e, in tal senso, anche in Italia c’è una piccola comunità di studiosi, “capitanata” dal sociologo Sergio Manghi che riconduce in maniera molto interessante la riflessione girardiana sui binari dell’ecologia profonda.
L’approccio alla realtà, nella società secolarizzata dell’era planetaria, qualora quest’ultima voglia sfuggire all’abisso dell’apocalisse in corso, non potrà che essere, allora, quello che Fritjiof Capra definisce di “consapevolezza ecologica profonda”. La parola apocalittica, infatti – come afferma Girard –, “non dice nient’altro che la responsabilità assoluta dell’uomo nella storia”. L’avignonese, alla maniera di Benedetto Croce, sembra quasi dire che all’uomo dell’era planetaria, dopo la crisi dei fondamenti metafisici, non sia rimasto nient’altro che la storia. E la storia, per evitare l’abisso verso cui sembriamo andare inevitabilmente incontro, ha bisogno dell’etica cristiana. Come afferma Vattimo, “la verità che secondo Gesù ci farà liberi non è la verità oggettiva delle scienze, e nemmeno la verità della teologia (…) è la verità dell’amore, della caritas”. Una verità che trarrebbe forza dalla propria stessa “debolezza”. Una verità, ancora, che si accrescerebbe grazie a quella che Humberto Maturana definisce la “conoscenza della conoscenza”. Ovvero quella consapevolezza che “il nostro non è il solo universo, ma uno dei multiversi in coesistenza con i molti altri degli altrettanto molti altri nostri simili”. Una consapevolezza che ci impedirebbe, finalmente, di eludere “veri e propri obblighi etici”. E non è forse questo il messaggio più profondo contenuto nell’enciclica di Papa Francesco?