«L’aborto è una violenza verso il nascituro e verso il corpo della donna […]. Sono favorevole alla legalizzazione per togliere la pratica dalla clandestinità, ma contraria a farne una bandiera». Parola recente di Dacia Maraini, storica femminista italiana, scrittrice di successo e firma del Corriere della Sera.
Un’ammissione importante anche se inconcepibile: si legalizza la violenza sul nascituro e sul corpo della donna per togliere tale pratica dalla clandestinità? Ha senso questa affermazione? Ha senso legalizzare le rapine per togliere tale crimine dalla clandestinità, evitando così magari sparatorie e uccisioni dei commessi di banca o degli stessi malviventi? No. Non a caso Papa Francesco ha ricordato: «Voi pensate che oggi non si facciano i sacrifici umani? Se ne fanno tanti, e ci sono delle leggi che li proteggono».
Ritorna così la contraddizione, spesso da noi denunciata, di coloro che si dichiarano contrari all’aborto -riconoscendo onestamente che si tratta di una violenza contro la donna e dell’omicidio del bambino non ancora nato-, ma che non riescono ad opporsi alla sua legalizzazione, temendo di sfidare i dogmi della società moderna. La Maraini, si sa, non ha questo coraggio: non a caso ha scritto queste parole in un articolo con il quale si è scusata per aver firmato il recente appello contro all’utero in affitto promosso dalle femministe di “Se non ora quando – Libere”. Una presa di posizione che ha spaccato sia il mondo femminista che quello omosessuale militante, la Maraini si è trovata al centro del ciclone e ha comodamente fatto marcia indietro. I liberi pensatori sono merce rara.
Se nel 1975 Pier Paolo Pasolini scriveva: «Sono traumatizzato dalla legalizzazione dell’aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell’omicidio», oggi pochi hanno la forza di arrivare fino in fondo alla realtà dei fatti. Si parla di “dramma” dell’aborto o di “scelta sofferente” delle donne: ma perché l’aborto dovrebbe essere un dramma se lo zigote è un grumo di cellule? Un dramma non è quando muore qualcosa maqualcuno, e quando qualcuno viene ucciso si chiama omicidio. L’unica che ha cercato di evitare questa contraddizione è stata la furbissima filosofaChiara Lalli, sostenendo che invece “abortire è bello”, non è un trauma e non esiste alcun problema etico. E’ l’unico modo effettivamente di salvarsi dall’ipocrisia e dalla incoerenza, entrando però immediatamente in collisione con l’evidenza medico-scientifica poiché, per gioire per l’aborto, bisogna necessariamente reprimere cinicamente le innumerevoli storie di sofferenza delle donne e considerare embrione e feto dei meri grumi di cellule da cui liberarsi al più presto. A meno che si gioisca per l’omicidio di un essere umano.
E che sia tale nessuno ha dubbi, nemmeno i medici abortisti. Alessandra Kustermann, storica ginecologa abortista e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano, ha dichiarato: «In quel momento so benissimo che sto sopprimendo una vita. E non un feto, bensì un futuro bambino. Ogni volta provo un rammarico e un disagio indicibili. Sento che avremmo tutti potuto fare di più. So che a me manca la fede per farlo, così quando sono lì penso che la vita della madre, che soffre davanti ai miei occhi, valga più di quella di suo figlio che non vedo ancora. Amo il mio lavoro, quando non è concentrato sugli aborti, ma so che quando andrò in pensione mi potrò permettere di pensare di nuovo a Dio. Quando finirò di lavorare, spero solo di trovare un confessore misericordioso». Papa Francesco nel 2014 ha risposto anche a lei: «non è un problema religioso o filosofico. E’ un problema scientifico, perché lì c’è una vita umana e non è lecito fare fuori una vita umana per risolvere un problema».