E’ vero, condividiamo il 98% dei nostri geni con le scimmie antropomorfe. Peccato che questa informazione non venga usata strettamente nell’ambito evolutivo, come si dovrebbe invece fare, ma per anni è stata strumentalizzata per fini riduzionistici, ovvero filosofici: l’uomo non è nient’altro che -celebre formula lessicale del riduzionismo- una scimmia poco più evoluta, perciò la creatura non ha nulla di speciale e quindi non esiste alcun Creatore.
Questa è l’estrema sintesi dell’ateismo scientifico (anche se platealmente non esiste più) che abusa dell’evoluzione biologica per cercare di sostenere conclusioni teologiche. Nessuno nega che vi sia una parentela evolutiva con i primati, ma è indubbio che l’uomo abbia misteriosamente ed improvvisamente effettuato un salto ontologico (non soltanto quantitativo, dunque) rispetto ai suoi antecedenti, che lo rende unico, irriducibile, un sistema complesso dove i componenti sono tutti connessi e interdipendenti e il sistema non è dato dalla somma delle parti. Altrimenti non si spiegherebbero tante altre informazioni, fortemente nascoste dai riduzionisti di professione, come quella che abbiamo anche il 90% dei geni in comune con i coralli marini, abbiamo parecchi geni uguali a quelli delle ostriche, il 95% dei nostri geni sono simili a quelli della fragola, l’80% del nostro Dna è in comune con un verme di 1 mm (il Caenorhabditis elegans), mentre per il 50% è condiviso con quello della banana. Abbiamo lo stesso numero di geni della gallina e la nostra composizione atomica non è differente da un ficus. Dunque saremmo scimmie poco più grosse, ma anche grandi ostriche, coralli, topi, fragole e per metà anche delle banane. Se non si vuole cadere nel ridicolo bisognerebbe comprendere che evidentementel’uomo “non si spiega” nei suoi geni.
Sembra però non tenerlo in considerazione purtroppo Danilo Mainardi, famoso etologo e divulgatore scientifico italiano, nonché presidente onorario dell’Unione Atei Agnostici Razionalisti (insieme a Odifreddi, Nonna Papera e al Gabibbo). In un recente articolo contro la sperimentazione sugli scimpanzé, Mainardi ha infatti sostenuto che essi soffrono tanto quanto l’uomo poiché abbiamo il 98% dei geni in comune con loro. Eppure, Mainardi lo sa bene, l’uomo condivide anche il 97,5% di DNA con il ratto, perché allora non invoca il divieto di ogni tipo di sperimentazione anche sui topi, bloccando quindi tutta la ricerca scientifica e farmacologica (senza contare che anche gli ortaggi “soffrono”)? Perché probabilmente si è più interessati, per motivi filosofici, a umanizzare sui media soltanto le scimmie antropomorfe, per i motivi ateologici ricordati poco sopra. Non a caso tutti coloro che si battono pubblicamente per concedere diritti umani agli scimpanzé sono contemporaneamente militanti anti-teisti, come ad esempio il bioeticista Peter Singer e l’ex zoologo Richard Dawkins.
E’ comunque possibile e giusta una sperimentazione etica, senza sofferenza o sofferenza prolungata per gli animali, così come hanno ribadito in questi anni i più autorevoli scienziati e ricercatori internazionali, come anche laicissimi divulgatori scientifici, da Gilberto Corbellini e Michele De Luca fino al vegetariano Umberto Veronesi. Posizioni, quelle dell’animalismo radicale e del riduzionismo ateologo, che andrebbero abbandonate secondo i colleghi di Mainardi, come ha spiegato Enrico Alleva, già presidente della Società Italiana di Etologia e direttore del Reparto di Neuroscienze comportamentali all’Istituto Superiore di Sanità di Roma, o il neuroscienziato Vittorio Gallese.
Condivisibile l’intervento di qualche mese fa dell’epistemologo Mauro Ceruti, docente di Filosofia della scienza all’Università Iulm di Milano, che ha criticato la divulgazione scientifica che sui quotidiani diffonde i miti del “gene dell’intelligenza”, del “gene della fedeltà” ecc. «Penso a quante volte si continui a dare un’immagine addirittura falsa e fuorviante degli sviluppi più interessanti della genetica. Quasi ogni giorno leggiamo della scoperta del gene dell’intelligenza o del talento musicale o dell’aggressività o di qualunque altra caratteristica si voglia enfatizzare». Ed invece, ha proseguito il filosofo, «la scienza richiede l’elaborazione di una cultura in grado di concepirne il senso e di utilizzare appieno le sue straordinarie potenzialità, superando le barriere che frammentando le conoscenze frammentano il reale, rendono incapaci di considerare il ‘contesto’ e il ‘complesso’, rendono incoscienti e irresponsabili dinanzi alle conseguenze delle nostre azioni proprio perché diamo arbitrariamente per scontato di essere capaci di prevederle e di controllarle». «Per inerzia», invece, «anche da parte di molti suoi comunicatori, il modo in cui la scienza viene rappresentata è tornato positivista fuori tempo massimo, per così dire, ignorando come ormai da più di un secolo la scienza abbia cambiato paradigma abbandonando l’idea di essere autosufficiente. Anche nel campo dell’epistemologia permangono vive le tendenze riduzioniste, secondo le quali il compito della scienza sarebbe quello di scoprire in modo oggettivo, assoluto, un codice semplice nascosto dietro l’’apparente’ complessità del mondo».
Nel 2007, sempre il noto filosofo italiano, elogiò il proficuo dialogo tra scienza e fede, criticando oltre ai creazionisti anche i «tenaci oppositori che ritengono che i sostenitori di una visione scientifica dovrebbero essere necessariamente atei, ed anzi fare opera di proselitismo per condurre le persone “infantili” alla “maturità”. Così, il biologo inglese Richard Dawkins e il movimento dei “nuovi atei” auspicano che le persone “ragionevoli” dicano basta alle religioni, giudicate “nocive” al “pensiero indipendente”. Parlano di autosufficienza della scienza in virtù di una presunta “maturità”, e mettono sotto tiro anche le tradizioni umanistiche. Ma tali affermazioni rischiano di danneggiare soprattutto le scienze, perché entrano in collisione col loro pluralismo, con la loro libertà di interrogazione».