di Joseph Susanka
“Un problema al giorno d’oggi è che si può far sembrare la santità appannaggio di una manciata di eroi spirituali, e non l’obiettivo ordinario della vita cristiana. L’intero scopo della Chiesa – sacerdozio, Messa, sacramenti, buona predicazione, opere di misericordia corporali e spirituali – è però fare santi. C’è un’unica tristezza reale nella vita: non essere un santo. Non perdete l’opportunità” (Vescovo Robert Barron)
Nel mondo del cinema cattolico, c’è un certo genere di film sui santi che sembra essere appannaggio principalmente dei “pii” e dei “benintenzionati”.
Non mi piace questo filone, in primo luogo (temo) perché non sono né pio né particolarmente benintenzionato, ma mi dico che il fatto che non mi piaccia è legato a una ragione più profonda e problematica: perpetua quella che considero la teoria ateniese della santità – la nozione per la quale un santo esce già ben formato dalla testa di Dio, e il suo obiettivo principale è essere una sorta di paradigma, un esempio a cui aspirare, piuttosto che una guida – o, cosa più importante, un compagno di cammino – sulla via della santità.
Queste tendenze pie a canonizzare ogni momento della vita di un santo spesso si manifestano in una sorta di revisionismo spirituale, privando i loro soggetti dell’odore di santità dei loro ultimi istanti sulla terra e collocandoli retroattivamente negli eventi storici avvenuti durante la loro vita, rendendo così i conflitti principali nelle loro storie esterni piuttosto che interni. In casi di questo tipo, la storia riguarda meno il viaggio del santo che l’incapacità del mondo di abbracciare la santità. E se è sicuramente vero che il mondo odia essere affrontato (e corretto) dai santi, riesco a malapena a riconoscere me stesso o la mia vita in queste storie. Piuttosto che essere ispirato e incoraggiato da loro, mi sento troppo distante dai loro conflitti. Troppo spesso la santità sembra disperatamente fuori dalla nostra portata, qualcosa che viene raggiunto da semidei piuttosto che da esseri umani ordinari.
Ad ogni modo, ci sono stati sicuramente dei momenti in cui i film pii benintenzionati sono stati un balsamo per me, anche se ben più di frequente sono stati fonte di frustrazione. Preferisco i miei santi eccentrici e imperfetti, che lottano, cadono e si rialzano per prendere ancora una volta la loro croce. In altre parole, preferisco che i miei santi siano umani (è sicuramente il motivo per cui mi sono sempre piaciuti di più i film biografici, i cui protagonisti vengono mostrati con i loro difetti piuttosto che abilmente ritoccati).
La lista di oggi si concentra non sulla vita dei santi canonizzati, ma su alcuni dei film che ho visto negli ultimi anni che mi hanno spinto a pensare alle lotte e alle virtù “vissute” attraverso le quali ciascuno può raggiungere la santità nella propria vita.
1. In America
Nel fantastico film di Jim Sheridan su una giovane famiglia irlandese immigrata che lotta per farsi strada a New York City, la gravidanza inaspettata (e ampiamente indesiderata) della moglie Sarah è il catalizzatore che porta l’attore disoccupato Johnny ad affrontare l’evento principale che ha fatto lasciare loro l’Irlanda e ha eroso la famiglia dall’interno – la morte dell’unico figlio. Con l’aiuto del suo misterioso vicino (l’artista Mateo), la famiglia lotta per trovare la pace in mezzo alla paura che accompagna la nuova benedizione. Pieno di momenti piccoli ma perspicaci sul modo in cui i coniugi si relazionano tra loro e ai segni più tangibili del loro amore (i figli), questo film parla in modo toccante dei rischi e delle ricompense del fatto di essere aperti alla vita in qualsiasi forma, riconoscendo che la nostra disponibilità ad abbracciarla significa che dobbiamo anche essere preparati ad abbracciare la sofferenza redentrice che l’accompagnerà sempre.
2. Diario di un curato di campagna
Basato sul coinvolgente e stimolante romanzo di Georges Bernanos, questo film del leggendario regista Robert Bresson è un pugno nello stomaco spirituale. Il protagonista è il curato di Ambricourt, un giovane sacerdote fragile e appena ordinato che arriva in un piccolo villaggio della campagna francese per assumere il suo primo incarico parrocchiale solo per scoprire che il suo ministero (e in realtà la sua stessa presenza) è fortemente indesiderato – o ancora peggio, meramente tollerato dal suo gregge dolorosamente indifferente. Gravato da una salute che si deteriora rapidamente e afflitto sia dalla cinica apatia dei suoi parrocchiani che dalle proprie insicurezze e dai propri dubbi sulla fede, il presbitero lotta per abbracciare comunque la sua vocazione. Il capolavoro di Bresson è uno sguardo sobrio e austero a due cose che mi spaventano molto sulla santità: la realtà della notte oscura dell’anima e la sfida a sacrificarsi completamente e senza riserve, facendo le cosa giuste e virtuose indipendentemente dal fatto che la gente lo noti o lo lodi e dalla ricompensa terrena. È un promemoria doloroso del fatto che questa vita è davvero una valle di lacrime, e cercare di vivere nella massima pienezza sarà sempre accompagnato da dubbi e sofferenze. Allo stesso tempo, però, il buon curato ci ricorda che “Dio non è un torturatore”, facendo notare a una contessa ostinata che Dio “non è il padrone dell’amore. È l’Amore stesso”.
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3. Uomini di Dio
Il film più recente tra quelli che appaiono nella lista è un racconto edificante della vita (e della morte) dei monaci trappisti del monastero algerino di Nostra Signora dell’Atlante, assassinati dagli estremisti alla metà degli anni Novanta, ed è da sottolineare per una serie di ragioni. In primo luogo, è un racconto straordinariamente toccante (e veritiero) della vita comunitaria, in cui gli esseri umani urtano contro le spigolosità altrui e battibeccano su cose insignificanti, rispettandosi e amandosi comunque in modo profondo. In secondo luogo, è un promemoria dell’importanza di pregare per la perseveranza. Per molti è difficile immaginare la prospettiva di abbracciare una morte da martire a causa delle proprie convinzioni. Per me – vedendomi riflesso nei pensieri della giovane eroina de Un tempio dello Spirito Santo di Flannery O’Connor, che sa che “non potrà mai essere una santa ma ha pensato che potrebbe essere una martire se la uccidessero rapidamente” -, l’idea di raggiungere la fine della propria vita nello stesso atto che assicura la salvezza finale è stranamente affascinante. È anche improbabile per la maggior parte di noi, è questo è il motivo per il quale il dono più grande del film è il fatto di ricordare che dobbiamo tutti pregare quotidianamente per la virtù della perseveranza finale.
4. Il figlio
Il film dei fratelli belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne si presenta come una sorprendente analisi del nostro desiderio spesso inspiegabile di perdonare e di essere perdonati. La storia è più semplice di quanto possa sembrare: Francis, un giovane tormentato uscito da poco di prigione, viene portato nel negozio di falegnameria di Olivier per reinserirsi nel mondo del lavoro. Olivier lo riconosce subito come il responsabile della morte del proprio figlio, avvenuta qualche anno prima, e lo assume, anche se non è chiaro cosa motivi la sua decisione. Per lo spettatore, lo slancio del film (e la sua inarrestabile tensione) si basa sul fatto di chiedersi se Olivier agirà in base alle sue tendenze di vendetta comprensibili, anche se la nozione di vendetta, pur se onnipresente, non è mai il primo pensiero dell’uomo. Oliver cerca un tipo di punizione del tutto diverso. In una delle scene principali del film, l’ex moglie di Olivier, Magali, scopre l’identità di Francis. Devastata dalla volontà di Olivier di aiutare il responsabile della loro sofferenza, lo rimprovera per i suoi tentativi di riconciliazione: “Nessuno lo farebbe”, dice. Quando lui concorda, lei chiede: “E allora perché lo fai?” “Non lo so”, replica lui. E non lo sappiamo neanche noi. Ma vogliamo essere come lui: perdonare anziché essere consumati dalla vendetta, anche se non comprendiamo le sue azioni.
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5. Tre Colori (Blu, Bianco, Rosso)
L’ultimo esempio sembra un po’ un imbroglio… Ok, è un vero imbrooglio perché si tratta di tre film e non di uno solo. E questo significa che riassumerli è pressoché impossibile. Queste tre opere dell’enigmatico regista polacco Krzysztof Kieślowski sono straordinarie – sia prese indidivualmente che (e anche di più) come un’unità creativa. Catturano una sorprendente gamma di problematiche, lotte e (alla fine) redenzione umane, e se i protagonisti delle storie sono spesso inquietanti e tristi – a volte anche sordidi –, le intuizioni straordinarie sugli alti e bassi della condizione umana mi hanno lasciato senza fiato quando li ho visti per la prima volta. E ogni visione successiva mi lascia più colpito e commosso di prima. Non è tanto il fatto che riguardino specificatamente la virtù (o perfino la spiritualità). Ci sono una completezza e un’attenzione all’importanza dei piccoli dettagli che mi fanno sentire come se avessi guardato un’intera vita – o molte vite – dispiegarsi davanti ai miei occhi. E se mi chiedo spesso se capisco davvero quello che Kieślowski sta cercando di dire in questi film, mi ritrovo sempre con un apprezzamento più profondo per la complessità e l’interconnessione della nostra vita, e con un promemoria a trattare gli altri sapendo che anche loro lottano, che anche loro cercano verità e virtù. E che saranno sempre la presenza più ovvia e più palpabile di Cristo nella mia vita.
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Joseph Susanka scrive su Patheos e ha eseguito lavori di sviluppo per istituzioni cattoliche di istruzione superiore da quando si è laureato presso il Thomas Aquinas College nel 1999.
[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]