Da diversi anni in Iraq tutto indicava un cambio di rotta. Le origini del “Califfato” sono radicate nel collasso delle istituzioni e nella frustrazione sunnita contro lo Statodi Chiara Pellegrino
L’ascesa dello Stato Islamico non è stata rapida e improvvisa come spesso si scrive. Le premesse per il suo rafforzamento erano infatti presenti da tempo. Lo storico francese Pierre-Jean Luizard spiega nel suo ultimo libro Le piège Daech, L’État islamique où le retour de l’Histoire, come da diversi anni in Iraq tutto sembrasse indicare un cambio di rotta della storia e della geopolitica del Medio Oriente. Le conquiste militari delle sue milizie sono invece state fulminee e sorprendenti. A gennaio 2014, gli uomini armati di Abu Bakr al-Baghdadi conquistavano Falluja, una delle città più grandi della provincia irachena occidentale di al-Anbar, e a giugno era la volta di Tikrit e Mosul, città, quest’ultima, di 2 milioni di abitanti. L’obiettivo di conquista successivo, fallito, era Baghdad per l’alto valore simbolico di questa città, che dal 762 fu per tre secoli la capitale dell’Impero abbaside, e che oggi è la capitale del governo sciita iracheno.
Secondo Luizard, per comprendere questo rapido successo, è opportuno ripercorrere la storia moderna dell’Iraq, dalla sua genesi come stato-nazione nel 1920-25, all’invasione americana nel 2003.
Da diversi decenni l’Iraq è preda del conflitto confessionale tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. Approfittando della conflittualità interna e di una società irachena ormai allo sfacelo, al-Baghdadi ha saputo cavalcare l’onda del confessionalismo e far leva sul risentimento della minoranza sunnita, politicamente emarginata e vittima di abusi da parte sciita. Il “Califfo” si è presentato nei panni del liberatore venuto ad affrancare la minoranza dal giogo sciita e a restituire il potere agli attori locali sunniti. È evidente che a differenza di al-Qaida, lo Stato Islamico, almeno nella fase iniziale, non si è imposto alla popolazione locale come forza di occupazione straniera. Questa politica “lungimirante” sommata al progetto di costituire uno Stato e a disponibilità finanziarie ingenti (provenienti dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dal Kuwait e dagli Emirati) si sono rivelati fattori vincenti.
Lo Stato Islamico può perciò considerarsi l’eredità di decenni di politiche settarie e di esclusione di cui oggi l’Iraq e la Siria pagano il prezzo. Sebbene la situazione irachena sia precipitata in seguito all’invasione americana nel 2003, non si può certo dire che i decenni precedenti siano stati immuni da derive confessionali che hanno consentito allo Stato Islamico di germogliare.
Fin dalla sua nascita infatti lo Stato iracheno si è affermato contro la volontà della sua società e attraverso il dominio confessionale, dei sunniti sugli sciiti (o viceversa, secondo il periodo storico), ed etnico, degli arabi sui curdi. Nel 1920 la proclamazione del nuovo Stato incontrò l’ostilità della comunità sciita che in quel momento rappresentava il 75 per cento della popolazione; pochi anni dopo, nel 1924, gli sciiti furono vittime di un altro abuso: si decise di adottare la nazionalità irachena e accordarla automaticamente a chi, in precedenza, aveva avuto la nazionalità ottomana. Ciò escludeva gli sciiti che, non riconoscendo l’autorità del sultano, non avevano mai avuto nazionalità ottomana. Qualche anno più tardi le autorità decisero di ovviare al problema creando due tipi di nazionalità irachene: la “A” legata alla nazionalità ottomana, e la “B”, legata alla nazionalità persiana. Ma neppure questa decisione consentì di salvaguardare il Paese dalla deriva confessionale perché negli anni ’60 Saddam costrinse all’esilio gli iracheni con la nazionalità di tipo “B”.
Questa storia di abusi ed eccessi si ripete e raggiunge l’apice nel quinquennio 2003-2008 in cui, secondo gli analisti, si sarebbero create le condizioni favorevoli alla nascita dello Stato Islamico. La prima guerra confessionale tra sunniti e sciiti (la seconda è quella in corso) ha innescato un processo di frammentazione della società e del territorio sfociata nella pulizia confessionale che ha svuotato dei suoi cittadini sunniti interi quartieri di Baghdad e di altre città (se nei decenni precedenti erano gli sciiti a essere emarginati, ora le parti si sono invertite). L’overdose di abusi, la disoccupazione crescente, in particolare delle milizie delle tribù sunnite che nel 2006 erano state armate e pagate dall’America per combattere al-Qaida in Iraq e che il governo sciita si è sempre rifiutato di integrare nell’esercito, e la corruzione degli uomini al potere – Nuri al-Maliki, primo ministro sciita, si assicurava il sostegno delle tribù in cambio dei profitti del mercato nero del petrolio – avrebbero contribuito a radicalizzare la società sunnita, rendendola sensibile alle lusinghe del “Califfo”.
Alla luce della storia, non è soltanto il “Califfo” a minacciare lo Stato iracheno così come non sono i combattenti ad aver innescato il processo di distruzione del regime di Bashar al-Asad in Siria.Piuttosto, “lo Stato Islamico si fa forte della debolezza degli avversari e prospera sulle rovine d’istituzioni che stanno affondando”1, dice Luizard. E questa è l’idea anche di un altro storico francese, Philippe Migaux, quando afferma che “la minaccia jihadista nel tempo ha saputo cambiare la sua natura facendo leva sui punti deboli degli avversari”2.Un’indagine del processo di delegittimazione e decomposizione degli Stati, viziati fin dalle loro origini, consente di capire meglio le origini del Califfato.
Note
1Pierre-Jean Luizard, Le piège Daech, L’État islamique où le retour de l’Histoire, La Découverte, Paris 2015, p. 58
2David Bénichou, Farhad Khosrokhavar, Philippe Migaux, Le jihadisme. Le comprendre pour mieux le combattre, Plon, Paris 2015, p. 29