Rischi di strumentalizzazione per un pontefice come FrancescoForse non era proprio un atteggiamento da Papa. O quanto meno non era l’atteggiamento che la gente di solito era abituata a vedere in un capo della Chiesa cattolica. Perciò, non poteva non fare impressione, a guardare quella scena in aereo, di ritorno dagli Stati Uniti. E sentire il tono di Francesco nello smentire categoricamente, scandendo le parole, che fosse stato lui, o qualcuno degli organizzatori del viaggio, ad invitare l’allora sindaco di Roma, Ignazio Marino, alle cerimonie di Filadelfia per l’Incontro mondiale delle Famiglie.
Molti probabilmente avranno pensato che sarebbe stato meglio che, a fare quella precisazione, fosse stato (per esempio) il portavoce vaticano. Ma evidentemente il Papa aveva consumato l’ultimo briciolo di pazienza, dopo aver dovuto sopportare la continua ossessionante presenza di quell’uomo con la fascia tricolore a tracolla. Una presenza che si capiva benissimo essere strumentale. Rivolta ad acquisire un consenso, da “rivendere” quindi a Roma, e da rinfacciare a quanti gli remavano contro.
E Marino non è stato certo il primo caso. A cominciare, anche se per tutt’altri motivi, era stato uno dei massimi “guru” del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari. Il quale, carpendo la buona fede di Francesco, era riuscito a intervistarlo, e gli aveva manipolato le risposte, facendogli addirittura dichiarare come fosse sua intenzione “cancellare” il peccato. Ma poi ce ne erano stati tanti altri, a strattonare Bergoglio con estrema spregiudicatezza, a tirarlo – come si dice – per la giacca, sia da destra che da sinistra, per farne un autorevole sostenitore delle loro idee, delle loro posizioni.
Pensiamo a quello che è successo recentemente nella nunziatura di Washington, dove il Papa ha avuto vari incontri. Ha visto Kim Davis, l’impiegata della Contea del Kentucky, arrestata perché si era rifiutata di rilasciare una licenza di matrimonio a una coppia omosessuale. Poi, Bergoglio ha salutato un suo antico alunno, Yayo Grassi, gay, accompagnato dai famigliari e dal compagno. Ebbene, l’avvocato della Davis si è letteralmente inventato per la stampa un appoggio del Papa a quella che ormai è diventata una eroina anti-gay. A quel punto, per controbilanciare la falsa versione, Grassi ha raccontato del colloquio con Francesco, un colloquio che, come gli altri, doveva restare riservato.
Così, ne è venuto fuori, benché del tutto involontario, un ambiguo, confuso, se non contraddittorio, intervento del Papa sulla questione omosessuale. E, questo, proprio alla vigilia del clamoroso coming out di mons. Krzystof Charamsa. Clamoroso e scandaloso, perché progettato apposta per esercitare una pressione mediatica sul Sinodo dei Vescovi. E perché Charamsa ha cercato subdolamente di attribuire a Francesco – al di là dell’indubbio atteggiamento di comprensione e di accoglienza che il Papa ha sempre mostrato – un’apertura verso i gay, e le coppie gay, molto più avanzata di quella dei padri sinodali.
Per non parlare, sempre restando al Sinodo, della duplice vergognosa strumentalizzazione che è stata compiuta nei confronti del Papa stesso. Prima, la lettera inviata da un gruppo di cardinali, un po’ sconcertati dai cambiamenti procedurali; lettera che é stata manipolata, rispetto al testo originario, per attribuire a Francesco la volontà di pilotare a senso unico l’assemblea sinodale. Quindi, ancora più ignobile, il falso scoop giornalistico sul tumore del Papa, con l’evidente obiettivo di insinuare, di far credere alla gente, che lui “non ci stia più tanto con la testa”.
Si capisce allora il perché della crescente insofferenza di Bergoglio. Insofferenza, appunto, a causa dei frequenti tentativi di “ingabbiarlo”, di farne la bandiera di certe tesi, di certe iniziative; e che vanno così a toccare, a colpire, proprio ciò che gli sta più a cuore, e che sempre rivendica, ossia la sua autonomia, la sua libertà, il fatto di poter essere se stesso, fuori dagli schemi istituzionali, canonici. E, per questo, è una insofferenza che talvolta esplode all’esterno, come nella vicenda Marino. O, agli inizi del pontificato, quando disertò all’ultimo momento un concerto; o quando, durante una Messa in san Pietro, trattò freddamente i politici italiani.
C’è da capirlo, si diceva. Si abusa dei suoi gesti, dandogli un significato e una valenza che spesso non hanno. Il Papa telefona a una donna in crisi, la conforta, la consiglia; però, risaputa la cosa, ci sono fedeli che obiettano al loro confessore: “Ma l’ha detto Francesco!”. Si abusa del suo linguaggio, schietto, diretto, un po’ anche spregiudicato, per amplificare o, peggio, per travisare concetti appena accennati, per mettergli in bocca cose che lui non aveva detto. Un conto affermare: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?”. E un conto, invece, ridurre ambiguamente la frase a un semplice: “Chi sono io per giudicare un gay?”.
Ma c’è un altro motivo che può spiegare l’insofferenza di Francesco. Ed è la constatazione, che via via sta facendo, di quanto sia difficile conservare lo stesso modo di “essere e agire” di quand’era a Buenos Aires. D’altra parte, non è uno che si controlli, che ci vada cauto. Egli stesso si definisce “temerario”, “incosciente”. E forse, proprio per questo, ha il coraggio di spalancare continuamente nuovi orizzonti, di avviare processi inediti, di prendere decisioni improvvise, come per l’indizione del Giubileo. Si lancia, e basta. “Senza misurare le conseguenze”, ammette. Senza misurare le parole, gli aggettivi, i riferimenti. Rischiando però di generalizzare, di suscitare malumori. E poi, di dover fare i conti con le resistenze e le paure di autorevoli ecclesiastici.
Diventato Papa, si era riproposto di non rinunciare del tutto alla sua vita privata, alle sue abitudini, alle sue amicizie. Non riusciva a restare “aislado”, isolato, e anche per questo era rimasto ad abitare a S. Marta. Per lui, è un bisogno fisiologico vivere tra la gente. “Quando mi avvicino alla gente – ha scritto ai cattolici statunitensi, prima del viaggio – mi risulta più facile capirla e aiutarla nel cammino della vita”. Per questo, per avere un contatto con la folla, gli è di grande aiuto l’udienza generale del mercoledì. Ma forse, neppure questo gli basta.
Qualche settimana fa, Francesco è apparso improvvisamente al centro di Roma, in via del Babuino, da un ottico che conosceva. S’è sparsa subito la voce, e davanti al negozio s’è formata una ressa entusiasta. “Ha fatto esattamente quello che fa una persona normale, un comune cittadino, comprarsi un paio di occhiali nuovi, magari cambiando solo le lenti e risparmiare sulla montatura ancora buona”, ha commentato padre Antonio Spadaro, direttore della “Civiltà Cattolica”. Ma è stato proprio così? L’apparato di polizia italiana e di gendarmeria vaticana, e cioè, il livello di sicurezza da garantire, era quello per un comune cittadino? E l’enorme enfasi con la quale i media hanno raccontato l’episodio, non rischia di mitizzare il personaggio-Papa per ogni più piccola cosa, e, a lungo andare, di banalizzarne la figura?
Qualche giorno dopo, nell’intervista a una giornalista portoghese, il Papa ha confidato: “Ho bisogno di uscire…”. Ma subito dopo ha aggiunto: “…però è un po’… Non è il momento…”. Parole solo apparentemente sibilline. Francesco, con ogni probabilità, intendeva dire che si stava rendendo conto di come la sua voglia di “normalità” avesse più limiti di quanti ne aveva immaginati; e dunque, di come il suo modo di “fare il Papa” avesse inevitabilmente un prezzo da pagare. Ora, tutto sta a vedere cosa deciderà di fare, se rispettare questi limiti oppure, di volta in volta, scavalcarli. Ma c’è da credere che lui, figlio di Sant’Ignazio, e impegnato com’è a dare del Vangelo un nuovo annuncio, non sia certo il tipo che si spaventa, che si tira indietro.