La responsabilità della psicanalisi nella fragilità dell’uomo postmodernodi Andreas Hofer
Lo psicologo Massimo Recalcati si interroga, su “Repubblica”, sulla perdita del centro psichico invalsa nel nostro tempo. L’«esasperazione del carattere liquido dell’identità», dice citando Bauman, l’ha resa un concetto vacillante, barcollante, sempre più mobile e borderline. Todo cambia, come diceva una famosa canzone di Mercedes Sosa: cambia lo superficial, cambia también lo profundo (…) cambia todo en este mundo. Oggi possiamo cambiare sesso, pelle, razza, religione, partito, immagine (e, aggiungiamo noi, anche marito, moglie, figli, famiglia, tra non molto anche il corpo).
Se l’età moderna aveva sempre ricercato una identità solida come la roccia sotto la sabbia, in un’età ipermoderna come la nostra «l’identità pare dissolversi in un camaleontismo permanente», scrive lo psicanalista. Foucault non aveva forse profetizzato la fine del soggetto umano, destinato ad essere «cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia»?
La psicoanalisi non può sottrarsi alla sua parte di responsabilità: per un verso essa ha contribuito alla dissoluzione della psiche insistendo su un’idea di disturbo psichico come amplificazione ipertrofica dell’io. Non un io troppo deficitario e liquido causa la sofferenza mentale, ma un io troppo “identitario”, troppo rafforzato e centrato.
Così tutta una corrente psicoanalitica, da Freud a Lacan passando per Jung, ha scalzato l’io dal centro della psiche. Freud si paragonava a Copernico e a Darwin come fustigatore del narcisismo umano. Copernico aveva sferzato l’orgoglio umano mostrando che la terra non è il centro dell’universo, Darwin aveva inflitto il secondo colpo mostrando la derivazione dell’uomo dai primati. Freud aveva fatto un passo ulteriore e se possibile ancora più sconvolgente: evidenziare come l’io non sia «padrone nemmeno in casa propria». L’iniziatore della psicoanalisi non concepiva l’identità come un centro statico dal quale promana la personalità. Essa piuttosto somiglia a un arlecchinesco servitore di tre padroni: strattonato, in direzioni diverse e spesso inconciliabili, da una parte dall’istintualità dell’Es, dall’altra da quel rigido censore che è il Super-Io, infine dalla realtà esteriore.
Sempre su questa scia, ricorda Recalcati, Lacan arriverà a concepire l’io «non come non come il custode del nocciolo duro della nostra identità, ma come una cipolla: composto da una stratificazione di piccole foglie (le identificazioni che lo hanno costituito) senza alcun cuore solido». La peggior follia dell’uomo, da questo punto di vista, è «credersi davvero un io».
La perdita del centro psichico viene salutata dall’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari come una liberazione dell’umanità: «l’identità concepita come una sostanza permanente viene abbandonata come un residuo autoritario e disciplinare dell’età moderna e della sua paranoia costitutiva per lasciare il posto ad una idea nomadica, anarchica, rizomatica, senza Legge, della vita». Senza più un io a fungere da centro permanente e stabile della vita psichica «tutto appare più libero, senza confini e delimitazioni rigide».
Dall’identità liquida all’identità armata. Anarchia o tirannia?
Tutto bene dunque? Niente più angoscia? Niente affatto. C’è anche un rovescio della medaglia, fa osservare Recalcati. L’evaporazione dell’io innesca una reazione sottovalutata forse anche da Bauman: l’esigenza di trovare una identità solida, non evanescente. È questa necessità ad alimentare il motore del fondamentalismo, dove «il dubbio, la scomposizione della personalità psichica, il superamento dei confini identitari lasciano il posto alla rivendicazione di una certezza che non deve conoscere incrinature». Con la reazione fondamentalista l’io torna ad essere più che mai padrone (più che padrone, tiranno) in casa propria. E non solo: il fondamentalista è aggressivo. Inebriato dalla smania conquistatrice, aspira ad insediarsi anche in casa d’altri.
La perdita del centro identitario e la liquefazione dell’io aprono la strada a un io armato e corazzato, forte di una concezione paranoica dell’identità.
La lucida analisi di Recalcati si ferma qui, lasciando spazio però a una certa delusione. Non indica infatti alternative positive alla nefasta alternanza tra io liquido e io armato. Ecco, questa alternativa tra un’anarchia senza legge e una tirannia dispotica deve pur esserci. Possibile che non ci sia scelta che tra la libertà senza ordine dell’io liquido e l’ordine senza libertà dell’io armato?
Un simile dualismo riporta a quanto scriveva Vladimir Solov’ëv sull’essenza religiosa dell’islam, che per il filosofo russo consisteva nel vedere nell’uomo una «forma finita senza alcuna libertà» e in Dio una «libertà infinita senza alcuna forma». Da qui discende un rapporto puramente esteriore tra due poli radicalmente opposti: da un lato un creatore onnipotente e arbitrario, dall’altro una creatura finita privata di qualsiasi libertà.
Una dialettica analoga sembra operare oggi nel dominio della psicologia individuale. Da una parte abbiamo un io armato, tetragono, senza sfumature, crepe o zone d’ombra. L’io armato è una maschera rigida, terrificante, un’identità mostruosa che non riconosce legittimità alcuna a confini e frontiere esteriori. Dopo averli conquistati, al loro posto innalza muri invalicabili all’interno dei quali esercitare una tirannia assoluta sui campi dell’io. In questo senso l’io armato assume le sembianze di una forma finita senza alcuna libertà.
Dall’altra parte abbiamo invece un io liquido, senza confini e polimorfo, una sorta di Proteo che può assumere qualunque natura. Anche l’io liquido, come il Dio della teologia islamica descritto da Solov’ëv, è libertà infinita senza alcuna forma.
L’io armato appare una revisione fondamentalista del «monoteismo della coscienza» propugnato da Sigmund Freud, che aveva cercato di arginare le spinte disintegratrici della psiche descrivendo lo sviluppo dell’io come l’esito di un particolare processo di bonifica, attività romana per eccellenza. I territori e la paludi da prosciugare non sono altro che quelli della psiche, i quali attendono di essere liberati dalla proliferazione della pulsioni nevrotiche, disgregatrici, che frammentano e ossessionano l’io malato. Per lungo tempo una prolungata Pax Romana è riuscita a soggiogare queste tendenze dissociative, unificando e centralizzando l’io sotto la guida della ragione e della volontà. Là dove era l’Es è subentrato l’Io. Freud non ha timore di definirla un’opera di civiltà. Ma l’io armato del fondamentalismo fa di più: richiamando in servizio l’ossessione paranoica trasforma il buon governo in tirannia, volge lapax in bellum e perverte l’opera di bonifica in opera di distruzione. Per unificare una psiche a rischio di disgregazione catalizza e mobilita tutte le forze interiori indirizzandole contro un nemico esterno. Alla giustizia l’io armato sostituisce il terrore e la violenza.
All’io liquido corrisponde invece la revisione della psicologia operata da James Hillman, lo junghiano “eretico” che invita esplicitamente ad abbandonare il «monoteismo della coscienza». Bisogna abbandonare Roma e tornare ad abbracciare la Grecia e i suoi dèi plurimi, dice Hillman, che raccomanda perciò la paganizzazione della società e la disintegrazione della psiche. Quello che per Roma è disturbo o disordine non è che il segno che «la coscienza non è più schiava del centro egoico» ed è stata «liberata dalla sua identificazione romana, dal governo centralizzato diretto dalla volontà e dalla ragione».
La liberazione non sta dunque nel resistere alle personalità multiple che assediano l’integrità dell’io. La vera libertà sta nell’accettarle, ci dice il discepolo di Jung. Non sono i disordini interiori e le dissociazioni della coscienza a essere patologici. La vera malattia è «l’io romano con la sua centralità». Non si deve insistere nel proporre, come volevano Freud e Jung, l’unificazione della psiche. Un simile atteggiamento non sarebbe che un riflesso del monoteismo. Meglio invece promuovere un «politeismo psicologico». Utilizzare un’unica figura «unificante» — come la Vergine Maria ad esempio — depaupera la psiche. Molto meglio ricorrere a una molteplicità di figure come Persefone, Artemide o Atena. Accogliere la dissoluzione politeistica dunque è la cura, la strada per uscire dall’autoritarismo del monoteismo psichico. In alternativa all’unificazione psichica Hillman introduce un nuovo concetto: «fare anima», inteso come esplorazione continua e intermittente della psiche, una sorta di terapia ininterrotta.
Nel nostro tempo non sembra esserci alternativa al dualismo tra Hillman e Al Baghdadi. O un io dissolto in un politeismo neopagano di personalità psichiche oppure un irrigidimento fondamentalista del monoteismo della coscienza teorizzato da Freud. O dissoluzione o sclerotizzazione, o relativismo o fondamentalismo. Tertium non datur.
Tecnicismo, io liquido e corpo armato
Eppure, a uno sguardo più attento, tra quelli che appaiono come poli contraddittori pare esserci un sostrato comune. È il tecnicismo che presiede alle nuove prospettive del transumano o del postumano. L’io trans o postumanista rifiuta la costitutiva fragilità del corpo umano. Ma ciò non signfica disconoscere uno dei tratti costitutivi della condizione umana? «Cosa sarebbe dellacondition humaine – si chiede lo psichiatra Eugenio Borgna – stralciata dalla fragilità e dalla sensibilità, dalla debolezza e dalla instabilità, dalla vulnerabilità e dalla finitudine, e insieme dalla nostalgia e dall’ansia di un infinito anelato e mai raggiunto?». (1)
Il rigetto dell’umana vulnerabilità. Si spiega così il desiderio dei cultori del postumano di ibridare il corpo umano con le macchine e i metalli pesanti. La fusione con l’inorganico serve a fortificare il soma, serve a renderlo forte e inscalfibile come un’armatura (tipica suggestione narcisistica che ricorre in autori come Mishima, ad esempio).
Allo stesso tempo queste visioni propugnano un genderismo radicale: l’io deve abituarsi a “trasmigrare” (anche in un corpo meccanico). Addirittura si favoleggia di trasferire la coscienza su supporti digitali (su un hard disk esterno, è il cosiddetto “Mind uploading”). Per il tecnicismo radicale l’io liquido è il preludio del corpo armato.
Si impone così un corporeo aperto ad ogni possibilità che non solo è assimilato a un vestito (cioè a una cosa semplicemente utile e sostituibile), ma è anche un corpo che da vestito diventa scudo, corazza, armatura. Passiamo così impercettibilmente dalla zona dell’essere a quella dell’avere.
La risultante è un uomo ipertecnologico, orientato a costituire se stesso come un soggetto al tempo stesso potenziato (enhanced) e protetto (safe) da ogni genere di pericolo. Un uomo tuttavia sempre meno attrezzato per far fronte con mezzi propri, senza la schermatura tecnologica, al lato negativo dell’esistenza. Questa delega universale alla tecnica delle proprie facoltà lo rende un essere meno capace di affrontare le difficoltà, lo sguarnisce di fronte all’imprevisto. Si imprimono così nel suo diagramma psicologico i tratti della tipica psicologia da “signorino soddisfatto”. Ciò che rischia di farne un bimbo viziato e immaturo è proprio una tale combinazione della massima potenza e della integrale protezione. Privando l’uomo dell’esperienza del rischio e del negativo, lo si sgrava anche da tutto quello che assolve una funzione corroborante e contribuisce a temprare la natura umana. A tanto rischia di portare l’ebbrezza dell’illimitato.
Il nòmos della frontiera
Nel suo Elogio delle frontiere, Régis Debray concentra la propria attenzione sul nodo perverso che lega l’ostilità verso ogni idea di frontiera o confine e l’epidemia di muri che ha invaso il nostro mondo. La modernità liquida e il fondamentalismo rigido sono due facce della medesima medaglia. Le due ganasce di questa tenaglia – l’io liquido e l’io armato – possono essere spezzate solo da un io che sappia dare dei limiti al caos ma che lasci anche libertà di movimento. Una psiche sana ha bisogno di muoversi ma anche di arrestarsi davanti a un limite. Per questo occorre un io dalle fondamenta solide ma flessibile nelle articolazioni, un’identità che sappia anche accogliere l’umana fragilità e liberare dalle nevrosi devastatrici.
Affrancare dalla prigione delle pulsioni distruttive è precisamente il dono – potremmo dire anche il carisma tipico – della figura del padre. Per ritrovare il centro nel labirinto delle identità è assolutamente vitale seguire il filo d’Arianna del «codice paterno». (2) Bisogna riabilitare la figura del padre che pone condizioni. E che assegnando una legge (in greco il significato originale di nòmos, la legge, è “ciò che è diviso in parti, ciò che è assegnato, spartito”) traccia anche un limite.
Arginare la confusione è anche il senso e la funzione della frontiera, che indica la fine, il limite ultimo della terra. La frontiera è l’ultimo avamposto prima delle terre del caos. Varcare la frontiera significa inoltrarsi in territori invisi agli dèi, equivale a oltrepassare i limiti del giusto e del consentito. Oltre la frontiera stanno le terre del mostruoso, i campi del caotico e dell’indeterminato.
Per uscire dal falso dualismo tra dissoluzione e sclerotizzazione serve una sintesi di ordine e di libertà, altrimenti non avremo che una libertà senza ordine sempre pronta a rovesciarsi in un ordine senza libertà.
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(1) Eugenio Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi, Torino 2014, p. 7.
(2) Sulla costante azione liberatrice della figura paterna si può vedere Claudio Risé, Il padre. Libertà e dono, con prefazione di Pietro Barcellona, Ares, Milano 2013. Di codice «paterno» e «materno» parla Franco Fornari nel suo Il codice vivente (Bollati Boringhieri, Torino 1981).