Ma allora chi ha vinto? Ci hanno raccontato che nel Sinodo si stava consumando una battaglia che manco quella ai campi del Pelennor nel Signore degli Anelli tra le armate della luce e quelle dell’oscuro signore, salvo che ovviamente non si capiva bene chi era dalla parte di Minas Tirith e chi da quella di Mordor. Però alla fine di questa epica battaglia cosa è successo? Alla fine cosa è cambiato?
La verità come al solito è totalmente diversa da come ce la raccontano, e chi legge la Chiesa con gli occhi dei giornalisti si condanna a non capirne nulla. Voglio provare allora a leggere insieme con voi la Relatio Synodi facendo finta di non aver letto niente sui giornali, stando sul documento così come è, proprio per non farmi influenzare da questo clima assurdo.
Innanzitutto dico che il documento è bellissimo, esteticamente e spiritualmente bello, tanto da poterlo usare come testo di meditazione e questa è già di per sé una novità interessante: i vescovi hanno abbandonato il linguaggio formale della metafisica e del diritto canonico ed hanno scelto invece i toni spirituali del pastore, più che come maestri hanno parlato come padri. Non è una novità assoluta, ma in materia matrimoniale è molto interessante, e visto che scopo del sinodo non è mai stato riformare la dottrina, ma rivedere la pastorale, il linguaggio pastorale è decisamente il più pertinente.
La prima parola della Relatio è la più bella: “Il mistero della creazione della vita sulla terra ci riempie di incanto e stupore” (par. 4) e questa a mio parere è la traccia fondamentale per interpretare tutto il testo: la famiglia è innanzitutto un mistero da accostare pieni di meraviglia e le regole che la Chiesa detta sul matrimonio hanno proprio il fine di preservare questo incanto, convinti come siamo che se smarrisce il senso del mistero l’uomo perde la parte più importante di sé. Non sembri blasfemo in questo contesto citare le parole di un cantante che è stato però anche poeta (Lucio Dalla): “ecco il mistero: sotto un cielo di ferro e di gesso/ l’uomo riesce ad amare lo stesso, ed ama davvero”.
Ridurre questo stupore ed incanto, questo inno di gioia al Dio che chiama l’uomo a collaborare al mistero della vita, questo tributo alla resilienza dell’amore contro ogni avversità sociale, economica, culturale e politica alle questioni di bottega tra una presunta schiera di conservatori e una altrettanto presunta di progressisti è umiliante innanzitutto per l’intelligenza di chi lo fa e mostra una durezza di cuore impermeabile a qualsiasi appello.
Naturalmente sarebbe da “anime belle” non rendersi conto che tutta questa bellezza è minacciata e non sarebbe né onesto né giusto verso le famiglie che patiscono fatica e sofferenza in mille modi diversi non intervenire per custodire, indirizzare e accompagnare, nei limiti del possibile, la loro lotta per conservare la bellezza loro affidata. Consapevolmente e con coraggio i vescovi si sono quindi calati anche in questa fatica, senza restarne estranei. Molte situazioni sono analizzate nel dettaglio e non a tutte si dà una risposta, perché spesso le situazioni sono così complesse che solo un paziente discernimento, che non può che essere fatto “caso per caso”, può renderne ragione. È questo il caso ad esempio delle coppie conviventi, dove la scelta di convivere, anziché sposarsi, può essere dettata dalle circostanze più diverse (par. 71), o quella dell’accompagnamento al Battesimo di adulti che abbiano alle spalle situazioni precedenti di fallimento matrimoniale (par. 75).
Proprio questa scelta di “accompagnamento” è a mio parere la novità più interessante proposta dal Sinodo, la “affettuosa condivisione” (par. 77) diventa lo stile della Chiesa e l’impegno dei pastori, dai vescovi fino a tutti i preti impegnati nel servizio pastorale, è quello di imparare la difficile “arte dell’accompagnamento”, che ovviamente non significa “fate un po’ come volete”, ma farsi carico delle difficoltà concrete delle coppie, senza calare dall’alto risposte precostituite, ma piuttosto mostrando come raggiungere concretamente l’ideale evangelico attraverso piccoli passi possibili. Era la strada mostrata già da S. Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio con la famosa distinzione tra “legge della gradualità” e “gradualità della legge”, distinzione non a caso richiamata anche dai padri sinodali nel par. 86, proprio per dire che quel principio deve essere la guida dei pastori nella loro azione di accompagnamento.
Vorrei insistere ancora su questa nota dell’accompagnamento perché a mio parere è davvero la chiave attraverso cui interpretare il documento e ne rappresenta la maggiore novità. Forse un parallelismo può aiutare a capire: a partire dall’enciclica Humanae Vitae, fino alle celebri catechesi del Mercoledì di S. Giovanni Paolo II, in cui per cinque anni ha parlato del mistero del Matrimonio, l’approccio della Chiesa alla realtà matrimoniale e all’unione sessuale è progressivamente cambiato, spostandosi da un linguaggio giuridico/metafisico ad un linguaggio personalistico/pastorale, tanto che perfino la Humanae Vitae alla sua uscita incontrò resistenze da parte degli ambienti più tradizionalisti, questo cambiamento di approccio non negava la Tradizione, ma la illuminava sotto diversi aspetti, arricchendola sempre più di senso e bellezza. I cambiamenti non erano fattuali, ma si dava alla dottrina di sempre un senso nuovo, rendendola più comprensibile, più bella ed in ultima istanza più umana e praticabile.
Una cosa simile accade ora, con questo nuovo passo dell’accompagnamento, che è del resto una conseguenza logica di quelli precedenti: nulla cambia, ma tutto cambia. Non cambiano cioè le esigenze della Rivelazione, ma la Chiesa si incammina decisamente sulla strada del mondo, assumendone le contraddizioni e le fatiche, senza negarle, anzi cercando di coglierne l’aspetto di bellezza e tutto questo proprio nel tentativo di aiutare le famiglie a vivere la verità cristiana di sempre.
D’altra parte che qualcosa dovesse cambiare era sotto gli occhi di tutti, solo che i Vescovi sono ben consapevoli che ormai il problema non è più (per dirla con le parole di Hadjadj) se ammettere o no i divorziati risposati a sedere alla tavola eucaristica, ma aiutare le famiglie a sedersi alla stessa tavola quotidiana.
E veniamo così ai tre paragrafi più controversi del documento, quelli che hanno polarizzato tutta l’attenzione dei media, come se il vero problema dell’essere famiglia fosse la partecipazione o no all’eucaristia dei divorziati risposati.
È del tutto pretestuoso e scorretto leggere questi articoli come un “rompete le righe” che autorizzi ciascuno a fare ciò che vuole, ma è altrettanto pretestuoso far finta che il Sinodo non abbia detto nulla in materia. I padri sinodali sono ben consapevoli che il problema vero non è la partecipazione all’eucaristia, ma l’inserimento nella vita della Chiesa e da questo punto di vista bisogna riconoscere francamente che ancora molto resta da fare, se infatti fin dal 1981 il magistero ha detto una parola più che chiara su questo argomento e questa parola è una parola di sostanziale misericordia, tale per cui in nessun modo i divorziati risposati devono essere considerati o sentirsi scomunicati, bisogna però anche osservare che nella prassi pastorale concreta delle chiese troppe volte questa è rimasta lettera morta.
Come parroco mi capita spessissimo, perfino 35 anni dopo la Familiaris Consortio, di raccogliere il grido di dolore di tanti uomini e donne ingiustamente umiliati da sacerdoti ignoranti del diritto canonico e della misericordia: battesimi negati ai figli di seconde nozze, divieto di partecipare alle attività più varie delle comunità cristiane (financo il volontariato caritas o la partecipazione ad alcuni incontri di preghiera), mille piccole umiliazioni quotidiane dei generi più vari configurano una “scomunica di fatto” che non è mai stata nelle intenzioni della Chiesa ed è tuttavia reale in molte, troppe, situazioni concrete. A questo alludono i padri sinodali quando scrivono che “occorre discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo ed istituzionale possano essere superate” (par. 84). La questione della partecipazione all’Eucaristia è solo un aspetto, e neppure il più rilevante, di questa esclusione e se è probabile che non lo si possa superare perché a causa di situazioni contingenti (ad esempio può non essere opportuno né giusto abbandonare la nuova famiglia costituita in seconde nozze) si è costretti a rimanere in una situazione di comunione imperfetta, bisogna sempre ricordare che “comunione imperfetta” non vuol dire “nessuna comunione”.
Anche qui dunque, come in tutto il documento, la regola dell’accompagnamento prevale. È questo il vero cambiamento proposto: i pastori devono sforzarsi in tutti i modi di salvare le persone a loro affidate e quindi non mettersi nella posizione dei giudici, ma piuttosto in quella degli avvocati. Il diritto è chiaro, la norma cristallina, ma io di fronte non ho un caso di scuola, ma una persona concreta, con tutto il suo carico di dolore e di paura, una persona che non è mai un concentrato di male, nessuno lo è, che porta in sé una storia che, seppure intessuta di peccato, è però piena di frutti anche belli. Chi oserebbe dire in faccia ad un padre che i suoi figli nati dalle seconde nozze sono figli del peccato? Eppure ci sono stati parroci che hanno osato tanto! E allora, di fronte a questa persona concreta il dovere che mi indica il Sinodo è di farmi carico, come pastore, di questa contraddizione, sforzandomi in tutti i modi di riuscire a far quadrare le esigenze divergenti della verità e dell’amore.
Allora ho il dovere di ricordare tutte le circostanze attenuanti che scienza e coscienza mi offrono. E se non ne trovo nessuna da applicare al caso concreto, di scavare insieme al penitente nella sua coscienza, alla ricerca di un briciolo di verità e giustizia da far germogliare, da far crescere, da ripulire e far brillare e mettere in piena luce, nella logica dei piccoli passi possibili. E se proprio non riesco a trovare un motivo per assolverlo allora dovrò mettermi accanto a lui e aiutarlo in un lento e paziente lavoro di recupero, per restituirlo alla Verità e al Bene e trovare un modo per reintegrarlo nella Chiesa. E se non riesco a fare nemmeno questo allora dovrò buttarmi al suo posto ai piedi del Giudice, l’unico vero Giudice, ed implorare clemenza. Non è di una riforma del diritto che abbiamo bisogno, quello va benissimo così come è, ma di una riforma dei cuori. Giudici ne basta uno solo. Quello che ci serve sono avvocati, tanti, tutti schierati accanto all’Unico Avvocato.