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Voti del Sinodo, dottrina e salvezza delle anime

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Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 25/10/15
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Uno sguardo a ciò che è accaduto in aula al momento delle votazioni e a ciò che significa il paragrafo 85 del documento finale dell’assemblea sinodale sulla famigliaIl Sinodo si è concluso, il paragrafo più controverso che conteneva una significativa apertura verso i divorziati risposati e la possibilità per loro di accostarsi ai sacramenti – pur senza menzionare esplicitamente la comunione – è stato approvato con 178 voti a favore, 80 contrari e 7 astenuti. Un solo voto in più rispetto al quorum dei due terzi che però sancisce che anche questo brano del documento finale ha ottenuto l’ampia maggioranza qualificata, necessaria secondo i regolamenti, per poter dichiarare un testo come espressione piena del Sinodo.

Negli ultimi due giorni, dopo la consegna ai padri del testo finale perché lo discutessero e proponessero emendamenti, alcuni esponenti chiave della minoranza cosiddetta «rigorista» – contraria a qualsiasi mutamento in materia di disciplina sacramentale per i divorziati risposati – non avevano risparmiato elogi al documento. Avevano apertamente dichiarato che non conteneva «cambiamenti dottrinali» e che dunque poteva ottenere un vasto consenso. Ma in realtà si preparavano al momento del voto segreto ad affossarlo, con un colpo di scena che avrebbe fatto clamore.

Questa minoranza che ha potuto contare in particolare sui voti dei padri sinodali dei Paesi dell’Est, dell’Africa e di alcuni statunitensi aveva dunque sperato, in aula, di non far ottenere la maggioranza dei due terzi al paragrafo dedicato al «discernimento» caso per caso sui divorziati risposati in vista di un’eventuale loro ammissione ai sacramenti, nonostante il testo fosse stato studiato e limato. E nonostante si basasse sulla proposta messa a punto nel circolo minore tedesco al cui interno si sono confrontati per poi convergere unanimemente su un testo comune teologi come i cardinale Walter Kasper, Christoph Schönborn, Gerhard Ludwig Müller.

Alla fine del primo Sinodo sulla famiglia, nell’ottobre 2014 i passaggi più controversi del documento finale avevano ottenuto soltanto la maggioranza assoluta dei «placet» dei padri sinodali, ma non la maggioranza qualificata che li avrebbe fatti considerare a pieno titolo testi approvati. Dopo settimane nelle quali blog, siti e i giornali più contigui al gruppo cosiddetto «rigorista» continuavano a ripetere che la maggioranza dei padri era contraria alle aperture sui divorziati risposati,  si è cercato di fare il bis, ripetendo al momento del voto quanto accaduto un anno fa. Questa volta però, seppure per un soffio, anche il paragrafo 85 è stato approvato pienamente dai padri con la maggioranza dei due terzi richiesta.

Così chi ora minimizza l’esito della votazione, facendo notare che su questi aspetti non si tratta di fare i calcoli come nelle maggioranze parlamentari – era stato proprio Papa Francesco, all’inizio, a ricordare che il Sinodo non era un Parlamento – avrebbe esultato parlando di bocciatura se quel paragrafo 85 non avesse ottenuto i due terzi per la mancanza di un voto o due.

Per secoli, con dibattiti spesso laceranti, la Chiesa ha discusso al suo interno su questioni dottrinali delicatissime riguardanti il dogma di fede. Il magistero dei Papi, le loro encicliche e i discorsi, hanno approfondito tante questioni più o meno cruciali e su tante questioni hanno mutato atteggiamento. Si pensi soltanto all’enciclica «Mirari vos» di Gregorio XVI, che condannava la libertà di pensiero e la libertà di stampa, e la si paragoni con il magistero di Pio XII, per vedere quanto cammino era stato fatto nel rapporto tra la Chiesa e il mondo contemporaneo in cento anni.

Coloro che considerano ogni virgola aperturista come un «cavallo di Troia» per far distruggere la famiglia e il matrimonio cristiano, dovrebbero prendere atto che nelle società occidentali – sono i numeri a parlare – il matrimonio e le famiglie sono già spappolate. Proprio per questo, o comunque anche per questo, si è resa necessaria la riflessione di due Sinodi. È cambiato il contesto sociale, sono cambiate le abitudini, la società è sempre più «liquida», relativista, secolarizzata.

La Chiesa non rincorre il mondo, ma si chiede come annunciare al mondo il suo Vangelo in un contesto profondamente mutato. Se ci sono nuovi fenomeni, situazioni profondamente cambiate, un numero sempre maggiore di persone che vivono condizioni «irregolari», non può non porsi la questione di come raggiungerle, accompagnarle, farle sentire l’abbraccio della misericordia di Dio, cercare di venire loro incontro. Preoccuparsi soprattutto della «salus animarum» della salvezza delle anime, che è sempre stato – o dovrebbe sempre essere – il criterio guida di ogni riforma nella Chiesa. Poteva essere fatto un passo nella direzione dei divorziati risposati che, nonostante la loro condizione, vivono l’esperienza cristiana, magari hanno incontrato davvero la fede soltanto dopo la seconda unione, e desiderano i sacramenti? Poteva essere tentato un passo in questa direzione guardando a tutta la Tradizione, senza focalizzarsi soltanto su visioni teologiche suggestive ma non automaticamente da considerare dottrina della Chiesa?

In materia di matrimonio, per quasi dodici secoli la Chiesa non ha avuto una riflessione teologica, e quando ha cominciato a rifletterci, la questione è stata affidata piuttosto ai canonisti, cioè agli esperti di diritto, non ai teologi. È soltanto in tempi molto più recenti che si approfondiscono altri aspetti. Anche in campo matrimoniale, in materia di insegnamenti sulla morale sessuale, sono avvenuti cambiamenti significativi. È Pio XII, negli anni Cinquanta, che, contro il parere del Sant’Uffizio, decide di aprire ai metodi naturali per la paternità responsabile, cioè la possibilità per gli sposi di distanziare le nascite dei figli attraverso il calcolo dei periodi fertili della donna e l’astinenza dai rapporti in quei periodi. L’immediato predecessore di Papa Pacelli, Pio XI, nell’enciclica «Casti connubii» (1930) vietava esplicitamente questa possibilità. Per non parlare di quanto sancito nella costituzione conciliare «Gaudium et spes», che aggiunge al fine della procreazione nel matrimonio anche l’aspetto unitivo, il «dono di sé» che i coniugi si scambiano unendosi carnalmente.

Ancora, è stato Giovanni Paolo II, nell’enciclica «Familiaris consortio» (1981) ad affermare che se due divorziati risposati non possono separarsi a motivo di condizioni oggettive, e se rimangono insieme «come fratello e sorella», cioè astenendosi dai rapporti sessuali, possono fare la comunione. È un cambiamento significativo, dato che l’essere conviventi per un uomo e una donna non uniti da un vincolo matrimoniale sacramentale era stato considerato fino a pochi anni prima come un «pubblico concubinato» e una situazione di «adulterio» permanente.

Già da tempo la Chiesa non considera più in modo automatico un peccato grave lo stato dei divorziati risposati. Sarà bene precisare innanzitutto che la separazione e il divorzio non sono considerate di per sé un peccato: ci sono confessori di impostazione conservatrice che di fronte a certe situazioni, per il bene di uno dei coniugi e dei figli, suggeriscono talvolta la separazione. E dopo la «Familiaris consortio», che parla della possibilità di accedere alla comunione per i divorziati risposati che si astengono dai rapporti sessuali, è evidente che neanche la condizione di questi ultimi, che dopo un primo matrimonio sacramentale andato male hanno contratto un matrimonio civile, può essere considerata di per sé peccaminosa.

Una cosa era, ad esempio, la percezione verso chi viveva da «concubini» nell’Italia del 1950, quando non c’era il divorzio e la società era ancora largamente intessuta di valori cristiani. Un’altra è la percezione che c’è oggi, in un tempo nel quale, a leggere i giornali, sembra che a volersi sposare siano rimasti soltanto alcuni preti e alcuni omosessuali.

Dunque, proprio sulla base dell’insegnamento di Papa Wojtyla, è evidente che ad essere peccato, per i divorziati risposati, non è l’aver trovato un nuovo compagno o una nuova compagna, che magari li ha aiutati ad uscire dalla disperazione del primo matrimonio fallito o è stato decisivo per prendersi cura dei figli di quella prima unione, etc. Ad essere considerati peccato sono gli atti sessuali vissuti in queste relazioni. Il problema è soltanto uno: l’esercizio della sessualità. Per la Chiesa, che crede fermamente nell’indissolubilità del matrimonio sacramentale quando questo sia veramente avvenuto, quei rapporti carnali non sono leciti.

L’approfondimento nuovo che propone il testo finale del Sinodo votato dai due terzi dei padri è in realtà radicato nella Tradizione. Ricorda infatti, con il Catechismo della Chiesa cattolica alla mano, che «l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate» a causa di diversi condizionamenti. Pertanto «il giudizio su una situazione oggettiva», ad esempio quella dei divorziati che vivono in una seconda unione, «non deve portare a un giudizio sulla “imputabilità soggettiva”». In determinate circostanze «le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso». Di conseguenza, «pur sostenendo una norma generale, è necessario riconoscere che la responsabilità rispetto a determinate azioni o decisioni non è la medesima in tutti i casi. Il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi».

Che cosa significa? Significa applicare anche al sesto comandamento, «Non commettere adulterio», cioè anche al peccato dei rapporti sessuali nella seconda unione, la possibilità di attenuanti che lo rendono meno grave. Esattamente come previsto per gli altri comandamenti e per gli altri peccati. Non è detto che la seconda unione di due persone vada automaticamente considerata «adulterio» magari dopo dieci, venti o trent’anni di vita comune e fedeltà reciproca, amore verso i figli – del primo e del secondo matrimonio – sacrificio e donazione di sé, vita buona e magari impegno nella comunità cristiana. Oggi l’uomo sposato che cade in tentazione e va a prostitute, può ogni volta ricorrere al confessore, essere assolto e fare la comunione. Mentre la donna che dopo pochi anni di matrimonio è stata abbandonata dal marito e ha trovato un nuovo compagno disposto ad accogliere lei e i suoi bambini piccoli, prendendosi cura di loro, non può fare la comunione a meno che non si proponga di astenersi dai rapporti sessuali, anche se lei non era colpevole della rottura del primo vincolo e vive fedelmente questa nuova relazione sancita dal matrimonio civile.

La via del discernimento sulla base di criteri stabiliti dal vescovo non rappresenta affatto una «svendita» della dottrina cattolica sull’indissolubilità matrimoniale. Non significa nemmeno stabilire una nuova disciplina sacramentale che preveda una qualche forma di automatismo per tutti i divorziati risposati desiderosi di riaccostarsi ai sacramenti. L’eucaristia non è un diritto da rivendicare. Ma non è nemmeno un premio per i perfetti. È una medicina per i malati.Per quei «malati», i peccatori, Gesù si è incarnato ed è morto in croce per poi risorgere il terzo giorno. Per ognuno di quei «malati» che muove un passo verso il Signore, in cielo si fa festa, ha insegnato Gesù.

Nel paragrafo 85 del documento finale non si insiste nemmeno sulla codificazione di un percorso penitenziale per i divorziati risposati: farlo avrebbe infatti significato dare da intendere che alla fine del percorso, nonostante tutto, si sarebbe arrivati alla meta dei sacramenti. Invece, parlare di «discernimento», di caso per caso, di valutazione oggettiva e soggettiva delle diverse situazioni, di coscienza, di rapporto con il confessore, rispetta e rispecchia profondamente quei criteri della dottrina classica sui quali ha riflettuto san Tommaso. Il quale spiegava che quanto più si scende nel particolare, tanto più è necessario il discernimento prudenziale. Perché le storie, i drammi, le vite delle persone non sono tutte uguali né possono essere catalogate, definite, comprese e vagliate soltanto sulla base di «griglie dottrinali».

La portata di quanto accaduto ieri al Sinodo viene ora minimizzata, sui media, sia da quelli che fino all’ultimo speravano nella bocciatura di quel paragrafo per indebolire ogni apertura, sia dai commentatori aperturisti, delusi per il fatto che il Sinodo abbia concesso troppo poco in questa materia. Così, ancora una volta, nel (corto) circuito mediatico, i due opposti si toccano e in fondo concordano. Incapaci di cogliere, sia gli uni che gli altri, quel «camminare insieme» del Sinodo, quello sguardo autenticamente evangelico di una Chiesa la quale, fedele fino in fondo all’insegnamento del suo Signore, cerca ogni strada per avvicinare, accogliere, reintegrare, abbracciare, perdonare, includere. Senza imposizioni dall’esterno, senza cedimenti alle «agende» dei cosiddetti «progressisti» o alle paure dei cosiddetti «rigoristi». Consapevole che la vera difesa della dottrina sta nel difenderne lo spirito, non la lettera. E soprattutto cosciente che mai il cristianesimo, cioè l’incontro con una Persona, può essere ridotto soltanto a puro sistema dottrinale, a teoria o peggio, a ideologia.

 

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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