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Che il Sinodo rivaluti la dimensione sessuale nella vita di coppia

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 01/10/15
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Mi sbaglierò, forse mi sbaglierò. Ma rileggendo tutto quello che il primo Sinodo sulla famiglia ha prodotto, mi è rimasta la sensazione che nei dibattiti e nei documenti non sia stata data una sufficiente attenzione all’amore. L’amore – intendo dire – che si esprime in quell’aspetto così importante per la vita di coppia che è la sessualità. E che, pur non essendo sempre e necessariamente orientata alla procreazione, aiuta ugualmente gli sposi a crescere nel loro rapporto intimo, nella loro complicità affettiva. Trovando ciascuno la propria identità nella reciprocità relazionale con l’altro, nel donarsi all’altro, nel diventare “uno” con l’altro. “I due si uniranno e formeranno una carne sola”.

Non è che nell’assemblea sinodale la questione non sia stata affrontata. Ma come si è fatto generalmente per la famiglia (proponendo più le sfide pastorali, più le nuove difficoltà, che non il modello ideale di matrimonio cristiano), se ne è trattato sul piano delle cose-che-non-vanno, degli elementi negativi che oggi segnano pesantemente la vita di coppia, come la fragilità e la carenza di maturità dei soggetti, il narcisismo, l’individualismo, l’egoismo, l’instabilità sentimentale. Insomma, come si leggeva nelle conclusioni del Sinodo, “molti sono quelli che tendono a restare negli stadi primari della vita emozionale e sessuale”.

Era una diagnosi indiscutibilmente precisa, obiettiva. Però, poco o niente si diceva del senso profondo della sessualità, del suo grande valore per la relazione di coppia, non solo come atto fisico, passionale, ma anche come esperienza sentimentale, psicologica, spirituale. E che si dicesse poco o niente di tutto questo, mentre si insisteva – giustamente, per carità, ma in modo pressoché esclusivo – sull’apertura alla vita e sulla responsabilità educativa dei genitori, ebbene, una simile disparità di “trattamento” non poteva non indurre a domandarsi se sulla dottrina morale non continuasse a pesare un lungo passato di sospetti, di pregiudizi e di paure nei riguardi del rapporto sessuale all’interno del matrimonio.

Per secoli, tra i componenti la gerarchia della Chiesa, aveva dominato un diffuso ostracismo verso la sessualità, verso la corporeità. Ostracismo dovuto via via alla progressiva rivendicazione della superiorità del celibato ecclesiastico, ai tanti (futuri) Padri della Chiesa i quali avevano ripreso e sostenuto il dualismo platonico anima-corpo, spirito-carne; e poi, al Concilio di Trento, che aveva presentato il matrimonio, oltre che marcato da uno status giuridico-sacramentale, come se fosse un “sacrificio” nei confronti della verginità; per finire a papa Innocenzo XI, il quale aveva definito il piacere nell’atto coniugale come “remedium concupiscentiae”.

Qualcosa cominciò a cambiare soltanto con il Concilio Vaticano II. I padri conciliari si divisero in due tendenze: quella classica, rimasta ancora a Sant’Agostino e a Innocenzo XI; e quella che si ispirava alle nuove correnti teologiche, e chiedeva che la morale sessuale si aprisse maggiormente alla libertà di coscienza degli sposi cristiani. Inevitabilmente, finì con un compromesso. Nella costituzione “Gaudium et spes”, non venne ribadita la gerarchia dei “fini” e, conseguentemente, neanche il primato della procreazione e dell’educazione della prole sul “fine” secondario, cioè l’aiuto vicendevole e il mutuo amore. Ma neppure si arrivò ad affermare che l’amore coniugale, benché riconsiderato in una visione personalistica, fosse un vero “fine” dell’unione intima degli sposi, e dunque un bene per se stesso.

Rimasero così diversi punti oscuri o perlomeno irrisolti: ad esempio, sulla libertà dei genitori – una libertà comunque riconosciuta – di decidere il numero dei figli da avere; oppure, sulla moralità dell’atto coniugale, compiuto in modo da escludere il concepimento. Più tardi, uscita l’”Humanae vitae”, e giudicata l’enciclica solo per il no alla “pillola cattolica”, e non anche per le sue affermazioni sulla paternità e la maternità responsabili, e sullo sviluppo integrale della persona e della coppia, molti sposi cristiani entrarono in crisi, e non pochi si allontanarono dalla pratica religiosa.

All’origine di quello “scisma silenzioso”, come lo chiamarono i sociologi, c’era sicuramente una grande ignoranza del vero insegnamento della Chiesa. Ma c’era anche l’evidente difficoltà della dottrina morale di sganciarsi da una impostazione troppo giuridica, troppo condizionata dalla logica dei “divieti”, dei “doveri”, e da una fedeltà ai principi talmente rigorosa, talmente formale, da perdere di vista non solo l’esperienza umana ma la stessa carità evangelica. In più, contemporaneamente, si registrava un rapidissimo processo di imbarbarimento della società, sempre più permissiva, e pervasa da una cultura soggettivistica, da una commercializzazione del corpo: così che il sesso veniva ridotto a merce di consumo, a pura esibizione, a ignobile strumento per gente depravata.

Frattanto, per la verità, il magistero pontificio non era rimasto fermo all’insegnamento tradizionale. Giovanni Paolo II, per quattro anni, ha dedicato la catechesi settimanale all’amore umano, riformulando le coordinate antropologiche e teologiche della sessualità cristiana; e arrivando a sostenere come il piacere sessuale possa essere considerato il frutto della mutua donazione di sé nell’incontro tra l’uomo e la donna. Benedetto XVI, nell’enciclica “Deus caritas est”, ha messo insieme passione e dono, eros e agape, sanando la frattura che si era creata nel cristianesimo tra queste due dimensioni dell’amore.

Tuttavia, questo straordinario sviluppo magisteriale ha fatto sinora fatica a entrare nella teologia morale, nella prassi ecclesiale, negli stessi corsi prematrimoniali. E adesso, della sessualità, come si diceva, se ne è parlato poco anche al Sinodo sulla famiglia. Se ne è parlato poco e in maniera molto astratta, senza cioè ancorare il discorso morale al disegno di salvezza di Dio Padre: un disegno – come ricorda spesso papa Francesco – di misericordia, di comprensione della situazione concreta in cui vivono l’uomo e la donna, e di accompagnamento nell’aiutarli a uscire dalle inevitabili difficoltà della vita matrimoniale.

C’è da sperare, perciò, che la seconda assemblea sinodale sulla famiglia – l’assemblea ordinaria, ormai imminente – sappia coraggiosamente proclamare la verità dell’amore umano. Spazzando via i tanti tabù, che per troppo tempo hanno dato a credere che esistesse una antitesi tra lo spirito e l’eros. E poi, superando preconcetti e timori che ancora oggi resistono nei confronti della sessualità, solo perché la sessualità è diventata, suo malgrado, una parola ambigua, infangata, riprovevole, peccaminosa; o anche perché, negli ambienti ecclesiastici, c’è chi ne teme una separazione dalla genitorialità.

Dunque, c’è da sperare che, nell’affrontare i problemi della famiglia e del matrimonio, il Sinodo dei Vescovi sappia ridare significato e dignità alla dimensione sessuale del corpo: come del resto si faceva nella Sacra Scrittura, che la considerava una “benedizione”, un aspetto fondamentale della natura umana. “Il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo”, diceva Giovanni Paolo II. E questo corpo è fatto per il “dono”, per consentire la comunione delle persone: e, in quanto tale, “è in grado di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino”.

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