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Sinodo, quelle paure esagerate per l’unità della Chiesa

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Vatican Insider - pubblicato il 29/09/15
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Forse è il momento di dire basta sospetti sulle proposte che non si limitano alla semplice ripetizione del magistero precedentedi Gilfredo Marengo*

 

La lunga stagione sinodale, avviatasi fin dall’autunno del 2013, ha rappresentato una forte provocazione a prendere consapevolezza dell’emergere di nuove e inedite problematiche e un divario sempre più profondo tra l’insegnamento ecclesiale sul matrimonio e la famiglia e il vissuto di molti cristiani. In un contesto culturale e sociale nel quale il sentire comune è sempre più distante, quando non ostile, ai paradigmi cristiani circa l’uomo, l’amore e il matrimonio, gli stessi membri della comunità ecclesiale mostrano di essere in grave difficoltà nei loro confronti: non ne comprendono le ragioni e, di conseguenza, non li assumono come criteri di vita. D’altro canto proprio questa fragilità dell’esperienza cristiana condiziona pesantemente la capacità della vita della Chiesa di misurarsi con successo proprio con le nuove questioni presenti nel mondo contemporaneo.

Alle viste della celebrazione della prossima Assemblea sinodale di ottobre, i contenuti e le forme con le quali in questi due anni ci si è confrontati con queste tematiche hanno confermato quanto sia stata opportuna la scelta di ritornare sulla famiglia. Nello stesso tempo l’ampio dibattito creatosi, purtroppo segnato da esagerate istanze polemiche e autoreferenziali, ha portato a galla quanto ancora sia acerbo il modo con cui molti si misurano con il vero nodo della questione: la polarità tra dottrina e pastorale.

Per favorire uno sguardo all’imminente Sinodo libero da pregiudizi e da approcci settoriali, è utile ricordare qualche fattore della storia recente della vita ecclesiale: qui viene alla luce il contesto prossimo ove si collocano i suoi lavori.

L’insegnamento sul matrimonio e la famiglia, così come oggi lo possediamo, è «giovane»: solo a partire dal Vaticano II esso conosce uno sviluppo ampio e articolato nelle sue complesse dimensioni; non va dimenticato che ancora agli inizi degli anni Sessanta si poteva affermare che «La teologia del sacramento del matrimonio è suscettibile di approfondimento, e non ha ancora trovato una piena sistemazione dei suoi problemi» (C. Colombo).

La temperie ecclesiale in cui questo insegnamento si elabora è caratterizzata da un altro singolare accento di novità: Giovanni XXIII assegnò al Concilio il compito di esprimere un «magistero pastorale», come forma primaria di approfondimento dell’annuncio cristiano per rispondere alle provocazioni poste alla vita della Chiesa dal tempo presente.

Intraprendendo questo nuovo cammino, la comunità ecclesiale ha riconosciuto nella pastoralità il punto decisivo di verifica del suo modo di incontrare e paragonarsi con gli uomini del suo tempo (Chiesa-mondo).

Fin da subito (basti pensare a Gaudium et spes) il matrimonio e la famiglia sono stati riconosciuti come un ambito privilegiato di verifica di questi nuovi assetti del magistero ecclesiale e, più ampiamente, della presenza della Chiesa nel mondo.

La combinazione di questi fattori illumina le radici delle difficoltà attuali: diventa necessario tenerle in conto per poter realmente fare un passo in avanti. Esse mettono in luce le sfide con le quali la Chiesa si è dovuta misurare: incontrare gli uomini del proprio tempo in una delle esperienze più immediate e coinvolgenti per ognuno (l’amore umano), con la volontà di guadagnarne una miglior comprensione e di offrire a tutti la novità del Vangelo della famiglia, avendo coscienza che quanto essa propone possiede di per se stesso un valore realmente universale.

Apprezzare gli esiti di questo percorso richiede qualche avvertenza. In primo luogo va affermata senza incertezze l’ampiezza, la qualità e l’organicità degli insegnamenti prodotti. Nello stesso tempo – proprio per i temi trattati – conviene riconoscere una certo carattere di work in progress, non solo perché nuovi problemi e tematiche si sono affacciate sul palcoscenico della vita della società odierne (con evidenti differenze a seconda delle diverse parti del mondo), ma pure in ragione di un comprensibile percorso di progressivo approfondimento di un insegnamento di cui si è già ricordata la giovinezza.

Per questi motivi non convince l’atteggiamento di quanti hanno guardato con sospetto a ogni proposta che andasse oltre la semplice ripetizione dei dati magisteriali già noti, paventando pericoli per l’unità della chiesa e di fedeltà alla rivelazione.

A questi sproporzionati timori converrà ricordare due cose. Innanzitutto non si comprenderebbe la necessità di una così lunga e intensa attenzione al tema della famiglia, così come il Papa l’ha voluta, se l’esito sperato fosse semplicemente la semplice ripetizione di quanto già è stato detto.

In secondo luogo è necessaria una recezione del magistero della Chiesa contemporaneo sul matrimonio e la famiglia che non dimentichi il suo peculiare profilo pastorale. Occorre abbandonare  un atteggiamento che ritiene il momento dottrinale (espresso dal magistero) come un corpus in se conchiuso, buono solamente per essere applicato alla vita della persone e delle comunità e da usare per  deprecare il progressivo allontanarsi della vita della società dai principi cristiani: «Dobbiamo investire le nostre energie non tanto nello spiegare e rispiegare i difetti dell’attuale condizione odierna e i pregi del cristianesimo, quanto piuttosto nell’invitare con franchezza i giovani a essere audaci nella scelta del matrimonio e della famiglia» (Francesco, Ai vescovi, Philadelphia, 27 settembre 2015).

D’altra parte chi esprime quelle paure sembra non rendersi conto che, dopo cinquant’anni, un bilancio elaborato secondo un computo ragionieristico di guadagni e perdite, dovrebbe a malincuore registrare un saldo finale con segno negativo. La qualità della vita delle famiglie, la loro adesione ai profili antropologici ed etici che la Chiesa insegna, ritenendoli necessari e universalmente condivisibili, certamente non è migliorata in questi decenni; anzi: al presente i segnali di crisi, i fattori di corruzione, gli equivoci anche su temi fino a qualche decennio fa sentiti come evidenti e indiscutibili, sono davanti agli occhi di tutti.

Più promettente appare interrogarsi pacatamente sulla strada fin qui percorsa e tentare nuovi passi in avanti, certamente senza vagheggiare astratti rivolgimenti dottrinali.

Due esempi possono aiutare a comprendere: prendiamo in considerazione la relazione tra fede e sacramento del matrimonio e la questione della regolazione delle nascite.

Il primo tocca il nocciolo dell’identità cristiana del matrimonio (quindi del suo profilo ecclesiale e teologico forte), ma  – di fatto – solo in questi ultimissimi anni si è affacciato ed è stato colto come al cuore di tutte le questioni in gioco. Eppure è difficile trovare un tema che più di questo sia capace di mettere a fuoco la vera urgenza pastorale del presente: annunciare il Vangelo della famiglia e accompagnare a viverlo in un mondo che sembra avere smarrito completamente la memoria della tradizione cristiana. Lo ha ricordato in questi giorni il Papa: «Tempo fa, vivevamo in un contesto sociale in cui le affinità dell’istituzione civile e del sacramento cristiano erano corpose e condivise: erano tra loro connesse e si sostenevano a vicenda. Ora non è più così» (Ibid.).

L’altro problema ha goduto ben altra attenzione e – per decenni -è stato considerato una specie di  cartina di tornasole per testare tutta l’esperienza cristiana dei coniugi e delle famiglie. Non è difficile cogliere una certa sproporzione: si tenga conto che l’input a un primo tentativo di riscrittura della teologia del matrimonio e della famiglia venne in Concilio proprio perché ci si rese conto che non si poteva argomentare la liceità o meno della contraccezione senza una rinnovata riflessione  sull’esperienza dell’amore umano, così come si dà nel rapporto uomo-donna. L’investimento di energie di Giovanni Paolo II in questa direzione mostra bene quanto il pur doveroso dettato morale non possa essere né argomentato né proposto senza una sua adeguata fondazione. Egli ha fatto molto di più che ripetere e difendere – senza se e senza ma – Humanae vitae, ma si è sforzato di approfondire l’insegnamento del Concilio e di Paolo VI, realizzando un reale progresso: ne ha  illuminato in modo originale le ragioni antropologiche e teologiche, al fine di mostrarne la convenienza pastorale. Ridurre il Papa della famiglia a semplice custode di un’etica della regolazione delle nascita sarebbe come pensare che la Buona Novella di Gesù sia riconducibile in buona sostanza alla difesa del decalogo mosaico!

Alle spalle dei problemi qui appena evocati sta l’esigenza di riconciliare dottrina e pastorale. Che cosa comporta prendere davvero sul serio l’istanza pastorale e una sua riconciliazione con la dottrina (come recentemente ha auspicato papa Francesco nel suo Messaggio al Congresso internazionale di teologia presso la Uca di Buenos Aires, 1-3 settembre 2015)?

Si tratta in primo luogo di abbandonare una concezione del patrimonio dottrinale della Chiesa come un sistema chiuso, impermeabile alle domande e alle provocazioni del qui e ora in cui la comunità cristiana è chiamata a dare ragione della propria fede, come annuncio e testimonianza.

Per molto tempo la difesa della «dottrina» è stata sentita funzionale a custodire e mantenere compatta l’unita del corpo ecclesiale, soprattutto per far fronte a un mondo, percepito ostile e dal quale difendersi. Nel nostro tempo in cui siamo sollecitati «ad abbattere i bastioni» e a essere una «Chiesa in uscita», non bisogna avere paura di intraprendere altri cammini, al riparo da ogni «corservatorismo» e da ogni ingenua negazione di autorità a quanto non ha «sapore di novità» (Ibid.).

Occorre allora ricollocarsi nel solco fecondo del Concilio che ha offerto alla Chiesa una coscienza della pastoralità intesa nel suo senso più ampio, giacché in quell’evento «i pastori della Chiesa si prefiggevano non tanto e non soltanto di dare una risposta all’interrogativo: in che cosa bisogna credere, quale è il genuino senso di questa o quella verità della fede o simili, ma cercavano piuttosto di rispondere alla domanda più complessa: che cosa vuol direessere credente, essere cattolico, essere membro della Chiesa?» (K. Wojtyła).

Detto diversamente: ciò che custodisce il profilo identitario forte della comunità cristiana non è innanzitutto l’adesione a un sistema dottrinale, ma la sua divisa testimoniale e missionaria. Se ci si pone in questa prospettiva diventa agevole valorizzare con intelligenza e gratitudine quanto la Chiesa fino a oggi ha saputo annunciare e testimoniare del Vangelo della famiglia. Allo stesso tempo lasciarsi interrogare dalle tante domande ancora aperte non potrà che favorire tratti di novità e di maturità dell’insegnamento ecclesiale, senza escludere qualche opportuna correzione di accento, con la tensione a «iniziare processi più che possedere spazi» (Evangelii gaudium, 222). Per questi motivi non è ingenuo attendersi dalla prossima Assemblea sinodale un reale «balzo in avanti», secondo la felice immagine usata da Giovanni XXIII per indicare la strada al Vaticano II.

 

* Ordinario di Antropologia Teologica, Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia – Roma.

 

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