Se non ci fosse un legame fra l’Antico e il Nuovo Testamento, Gesù sarebbe come un meteorite piombato d’improvviso sulla terra, sarebbe come un estraneo giunto non si sa da dove e con quale diritto di cambiare le carte in tavola.
Se, invece, la sua misericordia è da sempre la causa e il fine della storia della salvezza, ecco che egli viene come l’atteso nella sua casa, come l’ospite per cui tutto è stato preparato.
In effetti, è proprio così che Gesù si presenta. All’inizio della sua predicazione a Nazaret, dopo aver letto il brano di Isaia che annunciava da secoli il giorno in cui sarebbe giunto l’anno di misericordia del Signore (cfr. Lc 4,17-19 che cita Is 61,1-2), ecco che Gesù commenta: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Il Cristo ero previsto e il profeta aveva parlato di Lui.
Gesù parla sempre di se stesso come del compimento di tutta la storia passata di Israele, anzi della storia intera dell’universo. Quando, ad esempio, scaccia i venditori ed i compratori dal Tempio non lo fa semplicemente per impedire che si guadagni sui sacrifici, bensì molto più profondamente per annunziare che il nuovo Tempio, il nuovo luogo della presenza di Dio, è la sua persona. Aggiunge infatti: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19).
Gesù è il vero Tempio: ogni parola veterotestamentaria sul Luogo della presenza di Dio era stata scritta anche per preparare i cuori a questo “nuovo” Tempio da distruggere e poi ricostruire in tre giorni.
Nell’Esodo, infatti, il popolo si era chiesto più volte: «Dio è in mezzo a noi, sì o no?», rifiutandosi di camminare senza di Lui, perché se Dio non posa il suo sguardo su di noi non ha senso raggiungere la Terra Promessa. La domanda sulla vicinanza di Dio tendeva già, senza saperlo – ci dice Gesù -, alla sua presenza definitiva nella carne del Figlio.
Dio aveva poi abituato Israele ad incontrarlo nella Tenda eretta nel deserto, ma, raggiunta finalmente la terra di Israele, aveva un giorno chiesto di costruire il primo Tempio. Dopo la conquista di Gerusalemme da parte dei babilonesi, il Signore aveva mostrato ad Ezechiele che la Sua Gloria era in grado di uscire da Gerusalemme per accompagnare il popolo in esilio. Israele aveva così imparato che Dio poteva essere incontrato anche lontano dalla Città Santa. Il Signore aveva poi chiesto di ricostruire il Tempio, dopo l’editto di Ciro, ed il popolo aveva nuovamente obbedito. La “mobilità” del tempio, così come il suo essere distrutto e ricostruito, intendevano in realtà preparare gli uomini alla presenza viva di Dio in Gesù, farli innamorare della presenza di Dio nella storia, ma anche renderli disillusi dinanzi alla certezza vacillante di un Tempio fatto di murature e mattoni.
Quando Gesù annunzia che il Tempio sarà distrutto ed in tre giorni ricostruito, annunzia che ora Dio è venuto ad abitare personalmente in mezzo agli uomini, perché Egli stesso è la presenza di Dio, perché il nuovo Tempio è la sua vita. Gesù rilegge così tutte le parole e le promesse di Dio sul Tempio come immagini prefigurative della sua venuta.
Paolo spiegherà poi alle sue comunità che, per il Battesimo, noi stessi diveniamo Tempio di Dio, perché lo Spirito Santo viene a prendere possesso del nostro corpo (cfr. 1 Cor 3,16).
Gesù si propone come chiave interpretativa dell’intera storia di salvezza, non solo nei confronti del Tempio, ma nei confronti di tutte le grandi figure ed immagini veterotestamentarie, si pensi solo alla manna, all’agnello, alla Pasqua, al comandamento, al servo sofferente, al Messia promesso, alla Vergine che partorirà, al deserto della tentazione, al Signore del Salmo 109, alla vigna prediletta da Dio, al pastore inviato da Dio, ecc. Ai discepoli di Emmaus «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27).
La storia intera del popolo ebraico è un’unica storia di amore fra Dio ed Israele. Già Israele legge la storia passata non solo come una serie di fatti storici successivi, bensì piuttosto come eventi paradigmatici destinati a ripetersi sempre di nuovo: il passaggio del Mare si era ripetuto nel passaggio del Giordano al tempo di Giosuè, poi di nuovo nell’uscita da Babilonia promessa dal secondo Isaia, fino alla Cena Pasquale ebraica che, nel rito, invita tutti: «In ogni generazione si è tenuti a considerare se stessi come se personalmente fossimo usciti dall’Egitto».
Insomma, se ci si accosta all’Antico Testamento con il metodo storico-critico ci si accorge che la Bibbia legge se stessa in chiave spirituale e che per i maestri ebrei ogni fatto passato è aperto ad una “ripetizione” nel futuro degli eventi già accaduti che si rinnoveranno con un accrescimento di significato.
Ma la lettura che Gesù compie della storia del popolo eletto di Dio la unifica in maniera ancora più profonda e definitiva. Gesù accoglie la prospettiva ebraica che la Scrittura narri un’unica storia di salvezza, ma in più si pone come colui che ne è l’interpretazione definitiva: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17).
Gli eventi biblici del passato si compiono in Cristo e proprio per questo non possono essere abbandonati, risplendendo della luce nuova che Cristo conferisce loro.
Ad esempio, la meravigliosa storia di amore di Abramo e del suo figlio prediletto Isacco manifesta un valore ancora più sconfinato proprio alla luce della venuta di Gesù. Gesù è il vero Isacco o – il che è lo stesso – Isacco prefigura la venuta di Gesù. Gesù dice, infatti: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia» (Gv 8,56).
Isacco, in ebraico, vuol dire “sorriso”, perché Abramo aveva infine riso alla nascita del figlio tanto desiderato. Ebbene in quel figlio era prefigurato Gesù Cristo, il figlio nel quale si sarebbero compiute le promesse di Dio ad Abramo, quella di diventare padre di un popolo numeroso come i granelli di sabbia del mare e come le stelle del cielo.
Il sacrificio di Isacco, a sua volta, era immagine del sacrificio di Cristo che avrebbe portato su di sé la legna dell’offerta e che sarebbe stato “legato”. Affermare che Gesù è il vero agnello, che Gesù è l’unico sacrificio accetto a Dio, permette di intuire retrospettivamente che Dio non aveva voluto il sacrificio di Isacco perché voleva preparare l’uomo a comprendere qualcosa di totalmente nuovo: Dio non avrebbe più accettato vittime e sacrifici, perché intendeva offrire se stesso per la salvezza degli uomini.
Consapevole in qualche modo già di questo, Abramo era salito sul monte dicendo ai suoi servi: «Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi» (Gen 21,5). E ad Isacco che gli aveva chiesto dove era la vittima, dato che c’erano solo il fuoco e la legna per l’olocausto, aveva parimenti risposto: «Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!» (Gen 21,8).
È la venuta di Gesù che spiega pienamente questi versetti misteriosi. Abramo credeva in Dio non perché era pronto a sacrificargli il figlio, ma molto più perché sapeva che il Signore non avrebbe fatto morire Isacco, perché era Dio a dover dare il vero agnello: solo Cristo sarebbe stato il vero agnello offerto da Dio stesso per la salvezza del mondo. Ecco la vera interpretazione del sacrificio di Isacco, ben diversa da quella proposta dai fondamentalisti che sostengono: «La nostra fede in Dio è provata dal fatto che siamo disposto ad uccidere e ad ucciderci nel nome di Dio». Il vero Dio dice piuttosto: «Io voglio che voi tutti amiate nel mio nome, poiché io amo ed io solo pagherò il prezzo del riscatto e del perdono».
J. Ratzinger-Benedetto XVI nel terzo volume del suo Gesù di Nazaret ha mostrato che «ci sono nell’Antico Testamento parole che rimangono, per così dire, ancora senza padrone. Da questa correlazione tra la parola “in attesa” e il riconoscimento del suo protagonista finalmente apparso, si è sviluppata l’esegesi tipicamente cristiana, che è nuova eppure rimane totalmente fedele all’originaria parola della Scrittura».
Brani come i canti del servo sofferente o come l’annunzio di una vergine che partorirà un figlio, non “hanno padrone” nell’Antico Testamento: nessuno delle possibili applicazioni che sono state suggerite soddisfano appieno. Solo la figura di Cristo ne è “il padrone”, solo a Lui aderiscono perfettamente. Sono come tagliate su misura della sua persona.
La lettura che Gesù fa dell’Antico Testamento diviene allora la chiave di tutta l’esegesi patristica. Per i Padri della Chiesa tutto nella Bibbia parla di Cristo: egli ne è il vero esegeta e interprete. Essi hanno talvolta esagerato, forzando la relazione fra Antico e Nuovo Testamento a parallelismi scandagliati fin nei minimi particolari, ed a noi paiono giustamente deboli alcune loro pagine.
Nondimeno essi sono Padri proprio perché sono stati e sono veri interpreti della Scrittura, annunciando a tutte le generazioni cristiane a venire che ogni brano biblico non ha solo il significato che aveva nella coscienza di chi lo scrisse, ma anche un sensus plenior (senso più pieno) in vista di Cristo. Lo ha insegnato il Concilio Vaticano II che ha voluto ricordare che esegesi storico-critica ed esegesi spirituale sono parimenti necessarie: «I libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento, che essi a loro volta illuminano e spiegano» (Dei Verbum 16).
È stata soprattutto la liturgia – poiché la lex orandi è lex credendi – a manifestare quando il legame fra Antico e Nuovo Testamento intravisto dai Padri doveva essere accolto e proposto in maniera definitiva. Ad esempio, scegliendo per la stessa liturgia domenicale il racconto della manna nel deserto e quello della moltiplicazione dei pani, la sapienza della liturgia mostra che fra i due episodi esiste un rapporto tipologico: il dono della manna nel deserto è “tipo” – questo è il termine usato da Paolo (Rm 5,14 e 1 Cor 10,6.11) -, immagine, ombra, figura, prefigurazione del dono dell’Eucarestia compiuto da Cristo.
Ma la tipologia liturgica non si ferma qui: essa è a tre tappe, perché include anche la celebrazione stessa. La manna intendeva prefigurare il pane della moltiplicazione, ma questo a sua volta è presente sull’altare e viene distribuito ai fedeli che si comunicano. Come nella liturgia ebraica i fatti antichi si rinnovano nella celebrazione liturgica: Dio continua ad operare e a salvare oggi.
La storia intera si presenta così come un intero disegno di misericordia. Tutta la storia degli uomini è abbracciata dalla provvidenza di Dio. San Paolo chiama tale disegnoeconomia. Come in una casa esiste qualcuno – l’economo, la madre, il padre – che provvede alla casa (oikos) perché sia rispettato un ordine (nomos) perché tutti abbiano cibo, calore, affetto, per vivere bene, così per Dio la storia è come una casa di cui Egli è l’economo. Egli “amministra” con la sua provvidenza l’intera storia dalla creazione alla vocazione di Abramo e di Mosè, fino all’invio del Figlio e fino al dono dello Spirito Santo che lo rende presente nella liturgia della Chiesa ogni giorno, fino al pieno compimento, quando Egli sarà tuto in tutti.
Una studiosa dell’ebraismo e grande catecheta, Sofia Cavalletti, amava ricordare che i bambini – e lo stesso vale per ogni uomo – non sono interessati tanto a ciò che è limitato: «Il limitato non è attraente, è l’immenso; il mistero che attrae». Parlando di storia della salvezza noi annunciamo che con un disegno di misericordia Dio abbraccia ogni uomo ed ogni tempo, illimitatamente.
Un immagine straordinaria dell’ampiezza del disegno biblico della misericordia di Dio è la Cappella Sistina, dove non sono solo i particolari ad essere belli: piuttosto dalla creazione, dipinta nella volta, fino alle storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, affrescate sulle pareti a due a due in chiave tipologica, fino al Giudizio Universale rappresentato sulla parete d’altare, è tutta la storia dell’uomo che ci è posta dinanzi, come “il cielo in una stanza”: la storia intera ha un senso.