Perché l’ambiguità abita anche la nostra vita spirituale
Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. (Mc 8,27-35)
«Ogni briciola di verità abbiamo dovuto strapparcela a furia di lotta»,
Nietzsche, Anticristo
Il dinamismo della vita attraversa inevitabilmente zone d’ombra, tempi nei quali facciamo fatica a riconoscerci, situazioni nelle quali ci sembra di dare un’immagine di noi diversa da quella che avremmo voluto trasmettere. La comunicazione è sicuramente un sintomo evidente di questa ambiguità: ci capita di non sentirci capiti o di non capire le vere intenzioni dell’altro.
Le cose non sempre ci sono chiare, non sempre afferriamo come stanno esattamente i fatti, così come noi stessi non ci sentiamo riconosciuti talvolta nella nostra identità più vera. L’ambiguità ci abita e struttura il mondo. La psicologia della Gestalt ha mostrato come la nostra percezione delle immagini sia spesso alterata e parziale rispetto alla verità dei fatti.
L’ambiguità dovrebbe insegnarci ad essere più prudenti nei nostri giudizi, più chiari nella comunicazione, più umili nella pretesa di valutare le cose. Spesso invece ci trinceriamo dietro i nostri giudizi, li rendiamo assoluti e senza appello. Del resto il fondamentalismo nasce esattamente dalla pretesa di negare l’ambiguità e l’incertezza di cui invece facciamo esperienza.
L’ambiguità abita anche la nostra vita spirituale, durante la quale passiamo dagli slanci, dall’entusiasmo, alla fatica di vivere nel quotidiano il Vangelo come criterio delle nostre scelte. Nella vita di fede, l’ambiguità si traduce nell’incoerenza, quella stessa incoerenza che spinge Pietro a riconoscere che Gesù è il senso della sua vita, la Parola attesa, ma nello stesso tempo a non accogliere la sofferenza nella sua vita: Pietro vuole solo un Dio vincitore e non accetta il volto perdente e sconfitto di Dio.
Come con Pietro, così con ogni discepolo, Gesù fa emergere l’ambiguità che c’è nel nostro cuore. La domanda su quello che la gente dice di lui non è un sondaggio pre-elettorale, ma l’occasione per far emergere la parzialità e la confusione dei nostri punti di vista su di lui.
Gesù si è accorto che qualcosa non ha funzionato nella comunicazione del suo messaggio: il capitolo 8 di Marco è una testimonianza dura di questo fallimento comunicativo, al punto che persino la guarigione di un cieco avviene in due tempi, occorre insistere dopo il fallimento parziale del primo tentativo! Le cose non sono chiare…
Per far emerge l’ambiguità che abita il cuore del discepolo, Gesù è disposto a mettere in discussione se stesso: non è affatto facile fermarsi a chiedere cosa gli altri pensino di noi. In genere, soprattutto quando tira una brutta aria, preferiamo non sentire, fischiettiamo per coprire le impressioni e i messaggi che gli altri stanno cercando di farci arrivare. Chiudiamo le porte ad ogni possibile ospite che voglia dire qualcosa su di noi.
Gesù non si tira indietro e si compromette, rischia, pur di guarire il discepolo dalle sue visioni parziali e ingannevoli. Fare verità in una relazione è sempre un rischio e un’azione compromettente.
E infatti i pareri della gente mettono in luce che qualcosa non ha funzionato: la gente ha colto solo un aspetto moralizzatore di Gesù, lo hanno visto con un maestro di morale, un castigatore di costumi (alcuni dicono Giovanni Battista), altri hanno proiettato su di lui le loro attese di giustizia e di vendetta, aspettano che distrugga con forza il nemico (alcuni dicono Elia), altri non vedono in lui nulla di speciale, nulla di nuovo (uno dei profeti). Gesù si compromette chiedendo anche al discepolo di compromettersi: ci può essere relazione vera solo tra due volontà che scelgono di compromettersi reciprocamente.
Pietro è il discepolo che si compromette, che costruisce una relazione sincera, ma che pian piano vuole impossessarsi di questa relazione: si mette davanti! Pietro vuole gestire, pretende di indicare a Dio la direzione. Pietro è disposto a stare nella relazione solo fino al momento in cui Dio risponde alle sue attese. Mettersi davanti a Dio vuol dire fare le proprie scelte, con i propri criteri umani, e poi pretendere che Dio entri nei nostri progetti, che Dio cioè segua le nostre iniziative. Dio si sottrae, non è disponibile a lasciarsi manipolare nei nostri giochi umani.
Gesù chiede a Pietro di mettersi dietro, cioè di vedere dove Gesù mette i piedi per poterlo seguire. Il discepolo può scegliere ogni giorno se seguire Cristo oppure no, se mettere i piedi dove li metterebbe Cristo o dove li metterebbe il mondo.
La croce non è qualcosa che accidentalmente ci cade addosso, la croce è qualcosa da prendere, prendere nel senso di assumere, occorre assumere, scegliere la logica del Vangelo come criterio quotidiano delle proprie scelte. Ecco cosa vuol dire prendere ogni giorno la croce, la fatica di ogni giorno: assumere la croce, cioè il Vangelo, come criterio delle proprie scelte.
Il mondo ci illude e ci butta in un vortice nel quale ci perdiamo inseguendo la nostra vita, illudendoci di poterla conquistare, afferrare, possedere. Ma la vita ci sfugge, è indisponibile, non è nostra, possiamo tutt’al più decidere di perderla, di donarla, di restituirla. Voler afferrare, gestire, possedere la nostra vita fa di noi tanti Sisifo che cercano un posto sulla cima del monte per collocarvi inutilmente il masso della propria vita.
Leggersi dentro
- E se provassi anche tu a chiedere cosa dice la gente di te?
- Stai anche tu cercando di conquistare la tua vita o hai cominciato a perderla?
PS: a proposito, cosa hai visto nell’immagine iniziale?