Quarta opera del regista Saverio Costanzo mescola insieme melodramma coniugale e thriller psicologicodi Andrea Lavagnini
Jude è americano, Mina è italiana. S’incontrano per caso a New York. S’innamorano, si sposano e presto avranno un bambino. Si trovano così in poco tempo dentro una nuova vita. Sin dai primi mesi di gravidanza Mina si convince che il suo sarà un bambino speciale. È un infallibile istinto di madre a suggerirglielo. Per preservare questa sua natura particolare, il figlio dovrà essere protetto dall’inquinamento e da ogni contaminazione esterna, anche alimentare. Jude, per amore di Mina, la asseconda, fino a trovarsi un giorno di fronte a una terribile verità: suo figlio non cresce ed è in pericolo di vita. Per salvarlo, il padre deve fare qualcosa e in fretta. All’interno della coppia inizia allora una battaglia sotterranea, che condurrà a una ricerca disperata di una soluzione nella quale le ragioni di tutti si confondono.
Hungry Hearts – quarta opera del regista Saverio Costanzo – mescola abilmente due registri tra loro molto distinti: il melodramma coniugale e il thriller psicologico. Attraverso la storia di una giovane donna, Mina, del suo senso di spaesamento e della sua caduta nell’ortoressia, l’ossessione maniacale per un’alimentazione sana, Costanzo decide di raccontare meccanismi relazionali e devianze psicologiche che derivano, in maniera molto profonda, dalla vita nelle metropoli contemporanee e trovano una loro espressione concreta nel cibo. Il film, tratto dal romanzo di Marco Franzoso Il bambino indaco, può quindi essere letto come una parabola – forse quasi un racconto nero – sul rapporto deviato con il cibo e sulle origini dei disturbi alimentari che scaturiscono dal nostro modo di vivere le relazioni e lo spazio in cui abitiamo.
La scena d’apertura, con l’incontro casuale di Mina e Jude, offre una chiave di lettura utile per comprendere l’intera pellicola. In questa breve sequenza i protagonisti si trovano bloccati nella toilette di un ristorante cinese a New York, lui si sente poco bene e deve usare a ogni costo i servizi. Il dialogo svagato tra i personaggi sembra dare il via a una commedia, ma le domande senza risposta che rimangono ad aleggiare in un bagno da dove i due non possono uscire permettono di cogliere l’orizzonte claustrofobico in cui la coppia resterà intrappolata per tutto il resto del film. La relazione tra Mina e Jude, sembra sottolineare Saverio Costanzo, nasce sotto il presagio di una futura reclusione da cui l’unica via d’uscita possibile è creata dalla violenza, anticipata dall’irruzione con la forza del proprietario del ristorante nel bagno. Questa breve scena ci mostra una Mina completamente disorientata, afflitta da un evidente problema con il proprio corpo (e con il corpo altrui) e un Jude titubante e impacciato: la distanza tra i due personaggi, nel rispettivo rapporto con la corporeità, non riuscirà a colmarsi fino alla conclusione drammatica del film.
La storia prosegue raccontando i primi passi relazionali della coppia: la vita insieme, un matrimonio festoso con gli amici e l’inaspettata (forse non voluta) gravidanza di Mina. La costruzione della relazione tra i due personaggi occupa la prima mezz’ora, dove l’unica avvisaglia del sotterraneo malessere di Mina è data dal suo sradicamento: l’assenza dei genitori, le difficoltà con l’inglese, la mancanza di punti di riferimento lavorativi o sociali. Come viene mostrato durante una grigliata con gli amici, in uno dei rari momenti del film girato in esterna, tutte le coordinate di Mina sono date da Jude e dal suo retroterra culturale.
Con la nascita del figlio – attraverso un parto cesareo obbligato dalla difficile condizione del nascituro – il film devia dai binari della commedia per trasformarsi in un thriller carico di tensione. Mina comincia a essere ossessionata dalla purezza del cibo che consuma. Costruisce un orto sul tetto del palazzo in cui abita, inizia a leggere libri dedicati alla cucina vegetariana e vegana, oltre che ad appassionarsi di New Age, inconsapevole del fatto che la continua ricerca di cibi “sani” la sta portando a compromettere la propria vita e quella di coppia e a un isolamento feroce, testimoniato dalla presenza di reti e barriere in tutto l’appartamento. Mina, come le persone affette da ortoressia, inizia, pian piano, a eliminare dalla sua dieta alcuni cibi considerati pericolosi, come la carne o i latticini. Le sue scelte non si fermano solo al cibo, ma muta anche le sue abitudini quotidiane: non esce più di casa per paura di contaminazione, diventa ossessiva per l’igiene delle mani, non mangia più con Jude, iniziando a far deragliare il loro rapporto.
Attraverso la pellicola, Costanzo ci dice che il modo in cui mangiamo è una sorta di alfabeto relazionale, che rivela il rapporto che abbiamo con noi stessi, con il nostro essere un corpo, con i nostri bisogni fondamentali e il modo di vivere le relazioni. Lo testimonia la deriva psicotica assunta da Mina, che sembra addirittura aver smesso totalmente di mangiare: l’assenza di un momento di condivisione del cibo con Jude è espressione emblematica dell’assenza di un rapporto tra loro. Da sempre, invece, l’immagine del banchetto è utilizzata – nella letteratura, nel cinema e nelle arti figurative in genere – per parlare di rapporti armonici fra persone e gruppi sociali, etnici e religiosi: la tavola imbandita e il cibo condiviso sono la raffigurazione della pace nel suo senso più pieno, che non si limita all’assenza di guerra. Anzi, proprio attraverso la medesima immagine conviviale si possono focalizzare l’unità profonda di giustizia e pace, di equità e condivisione. La crisi di Mina e Jude sembra provenire proprio da quest’assenza di condivisione, da una distanza siderale che separa i loro gesti come coppia.
Il film cambia registro quando Jude, preoccupato per la salute del bambino, decide di portarlo da un medico, il quale consiglia di cambiarne il regime alimentare. La narrazione si trasforma qui in un racconto horror: la macchina da presa ci mostra i personaggi dal basso verso l’alto, Mina sembra essere diventata un mostro alieno – magistrale una breve sequenza girata con un fisheye, un’ottica fotografica che distorce le immagini –, che si aggira per casa cercando gli indizi del tradimento (alimentare) di Jude. La follia sembra essersi impossessata della vita della coppia e del nuovo nato, il bambino senza nome che viene nutrito solo con strani intrugli. La violenza raggiunge il culmine quando Mina somministra di nascosto dei purganti al bimbo per purificarlo. Richiamando con sapienza le atmosfere di Funny Games del regista austriaco Michael Haneke e le ossessioni soprannaturali di Rosmary’s Baby di Roman Polansky, Hungry hearts racconta lo scatenarsi improvviso della violenza nella vita dell’uomo, senza che questa abbia padre, storia, origine.
La malattia che si abbatte su Mina ha, come contraltare, le forme di una metropoli, New York, che non permette di vivere rapporti umani e uccide le relazioni. La grande città – quasi un terzo personaggio nella pellicola – si presenta con la natura asfittica di un paesaggio anti-umano, ostile e caotico, fatto di grattacieli e privo di luoghi di incontro. Il mare, lontano miraggio al tramonto, è un orizzonte stretto tra il cemento della strada e i negozi vicini. Mina sogna un cervo che viene ucciso sul lungomare di New York: questa immagine estremamente evocativa rimanda all’assenza di un contatto diretto con la natura, con una realtà che vada oltre l’artefatto umano rappresentato dagli edifici e le numerosissime auto. Forse è proprio questa assenza di contatti umani e con la natura e gli spazi aperti, a generare in Mina questo bisogno, patologico, di purezza e autenticità, anelito a una dimensione spirituale interdetta dalla vita metropolitana. Il piccolo orto sul tetto sembra un piccolo tentativo di resistenza alla follia di cemento della grande metropoli.
Indagando la discesa nell’abisso della malattia mentale, Hungry hearts ci mostra che non tutto è “bianco o nero”. In Mina persistono qualità e ambiguità che la rendono una figura emblematica della nostra società. Il suo personaggio – in contrapposizione alla madre di Jude, che cucina pietanze malsane in una casa che poco ha di accogliente – è portatore di valori che non possono essere del tutto abbandonati. Lo stesso rapporto con Jude è ambiguo e difficilmente interpretabile: egli non riesce a fare di meglio che assecondare Mina, sia nel momento in cui il loro matrimonio sembra funzionare, sia dopo l’esplosione della psicosi, nel tentativo di sottrarle il bambino prima che lei possa nuocergli definitivamente. Saverio Costanzo mostra agli spettatori che, se Mina è un “mostro”, non lo sono di meno i personaggi che a lei si contrappongono con mezzi altrettanto folli e sbagliati: Jude rapisce il bambino e sua madre sparerà a Mina per salvare suo nipote. Sebbene ai poli opposti dello spettro dei comportamenti umani, tanto Mina quanto la suocera, che esibisce teste di cervo in salotto, si chiudono in rapporti di violenza, anche alimentari, che non aprono mai all’altro.
La relazione ambivalente di Mina col cibo, da un lato attenta e controcorrente e dall’altro fanatica e accentratrice, è specchio delle contraddizioni dell’uomo contemporaneo, del suo continuo bisogno di nuove forme etico-religiose ma anche di nuove spinte identitarie. Con un finale duro – l’uccisione di Mina a opera di sua suocera, per toglierle il bambino – che esclude ogni possibilità di dialogo e di evoluzione per il personaggio di Mina, Saverio Costanzo sembra chiamare direttamente in causa lo spettatore: che cosa è giusto? Qual era il confine da non oltrepassare? È solo Mina il “mostro” di questa vicenda o lo sono, allo stesso modo, Jude e sua madre? Come nell’immagine finale, anche per lo spettatore l’orizzonte rimane aperto a domande e dubbi che non si risolvono solo nello spazio di una proiezione.