A proposito della frase del “Padre Nostro” in cui si dice “non ci indurre in tentazione”Nel Padre Nostro si dice «non ci indurre in tentazione», come se fosse Dio a metterci davanti delle prove per vedere se sappiamo resistere al peccato. Mi sembrava che tempo fa si parlasse di una diversa traduzione, per far capire che in realtà nella preghiera che ci ha insegnato Gesù si chiede a Dio di non permettere che cadiamo in tentazione. Come stanno le cose? Da dove vengono le tentazioni, e come possiamo starne lontani?
Marta Cassetti
Risponde don Gianni Cioli, docente di Teologia morale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.
Per quanto riguarda la premessa alla domanda sicuramente il lettore si riferisce alla nuova traduzione della Bibbia della Conferenza episcopale italiana in vigore dal 2008 e correntemente utilizzata per le letture della Messa. La nuova traduzione ha effettivamente modificato le tradizionali parole della versione italiana della preghiera insegnata da Gesù traducendo Mt 6,13 con «e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male». È probabile che nelle prossima edizione del Messale in italiano, in preparazione, la formula del Padre nostro venga adeguata secondo la nuova traduzione. Non sono in grado di esprimere un parere sulla bontà della nuova versione da un punto di vista filologico – ci vorrebbe un biblista – ma certamente si tratta di un tentativo pastoralmente motivato. La traduzione tradizionale – «non ci indurre in tentazione» – poteva in effetti mettere a disagio il fedele lasciando intendere che la tentazione venisse direttamente da Dio.
Per quanto riguarda la domanda «da dove vengono le tentazioni, e come possiamo starne lontani?» mi pare che una risposta plausibile e autenticamente cristiana sia stata ben sintetizzata dal Cardinal Tomás Spidlík (1919-2010), uno dei maggiori maestri di spiritualità del nostro tempo, nel libro L’arte di purificare il cuore di cui mi permetto di riportare alcuni ampi stralci: «Solo il peccato è vero male, cioè frutto di un libero acconsentire al male dato dall’uomo stesso. Quindi, solo l’uomo è responsabile del male che s’impossessa del suo cuore e attraverso di lui entra nel mondo. I Padri della Chiesa scrissero omelie sul tema “Dio non è causa dei mali” (san Basilio).
Apostrofano l’uomo con queste parole: “Non dare la colpa né a Dio né al diavolo, né al mondo, né alla carne con le sue passioni, ma da’ la colpa a te stesso e solo a te stesso!” San Giovanni Crisostomo scrisse un trattato dal titolo: Nessuno può soffrire danno se non da se stesso. Sembra una constatazione triste? Lo è? In un certo senso sì, ma vi è anche il rovescio della medaglia: se da un lato siamo stati noi stessi a causare il male, dall’altro noi stessi possiamo cercare di ripararlo.
[…] Gen 3 racconta la storia del primo peccato: la tentazione di mangiare il frutto proibito, il colloquio di Eva con il serpente seduttore, il consenso di Adamo, la cacciata dal paradiso. I Padri ritengono che l’esperienza di ciascuno confermi e prolunghi nella storia ciò che la Genesi racconta nei primi capitoli. Ognuno di noi possiede un paradiso, cioè il cuore creato da Dio in uno stato pacifico. Ed ognuno di noi vive l’esperienza del serpente, che penetra nel cuore per sedurci. Il serpente ha la forma di un pensiero cattivo. Scrive Origene – e con lui concordano tanti altri Padri – che “la sorgente e l’inizio di ogni peccato è il pensiero” (in greco logismos).
[…] Non si tratta di un semplice pensiero, ma di un pensiero impuro, cattivo. Ad essere sinceri, ciò che spesso chiamiamo tentazioni non sono neppure veri pensieri, piuttosto immagini della fantasia alle quali si aggiunge la suggestione di realizzare qualche cosa di cattivo.
[…] I Padri paragonano il cuore umano ad una “terra promessa”, nella quale i Filistei, i Babilonesi e altri popoli pagani gettano lance e frecce, cioè cattive suggestioni. Questi pensieri “diabolici”, “carnali”, “impuri” non possono aver origine nel nostro cuore, dal momento che esso è creato da Dio. Vengono quindi “dal di fuori”. Non appartengono al nostro modo naturale di pensare. E finché rimangono al di “fuori” di noi, non sono peccato. Costituiscono un male solo nel momento in cui li accettiamo consapevolmente e liberamente, quando cioè ci identifichiamo con essi.
[…] Dal cuore dell’uomo viene il peccato, perché il consenso al male è dato dall’interno dell’uomo, dalla sua libera volontà. I pensieri cattivi, i desideri passionali girano continuamente, per così dire, intorno a noi. Spesso occupano la nostra fantasia e la nostra mente. Costituiscono la debolezza umana dopo il peccato dei primi antenati. Ma in sé non sono ancora un vero male. La Chiesa afferma che la concupiscenza proviene dal peccato e attira al peccato, ma in sé non è peccato.
[…] La vita dell’uomo sulla terra è un combattimento, dice Giobbe (7,1). E un proverbio aggiunge che chi non vuol combattere, non dovrebbe nemmeno vivere. Ma non dobbiamo esagerare la difficoltà di questa lotta. Un antico autore mistico, lo Pseudo-Macario, paragona la nostra anima ad una grande città. Nel centro c’è un bel castello, vicino c’è la piazza del mercato e intorno la periferia. Il nemico, cioè il peccato originale, ha occupato la periferia, cioè i nostri sensi. Ed è perciò che in quel punto spesso ci sentiamo turbati. Ma questi turbamenti arrivano di frequente anche alla piazza del mercato, cioè là dove si comincia a discutere se dobbiamo o non dobbiamo accogliere un pensiero come nostro o se piuttosto dobbiamo rifiutarlo. Ma nel castello interiore, dove è la nostra libertà ad essere il padrone, il peccato non può penetrare se non gli apriamo la porta con il nostro libero consenso».
Gli antichi monaci, i padri del deserto, – ricorda Spidlík – «proposero un’accurata analisi del processo mentale che si verifica in occasione delle tentazioni interiori. Ordinariamente si distinguono cinque stadi di penetrazione della malizia nel cuore: 1) la suggestione, 2) il colloquio, 3) il combattimento, 4) il consenso, 5) la passione». La suggestione, è la prima immagine fornita dalla fantasia, la prima idea, il primo impulso. «Se lasciamo perdere la prima suggestione, essa se ne va così come è venuta. Ma l’uomo normalmente non lo fa, si lascia piuttosto provocare e comincia a riflettere», ecco cosa s’intende per «colloquio». «Un pensiero che, dopo un lungo colloquio, si è insidiato nel cuore, non si lascia scacciare facilmente», ma l’uomo è ancora libero di non acconsentire. «Può e deve uscire vittoriosamente da questa lotta, ma gli costa tanta fatica», questo significa il «combattimento». Il «consenso» è invece lo stadio di chi «ha perduto la battaglia» e «decide di eseguire alla prima occasione, ciò che il pensiero maligno gli suggerisce. In questo stadio si commette il peccato in senso vero e proprio. Ed anche se non si concretizza esteriormente il peccato rimane interiormente». La «passione» – che nella spiritualità orientale ha un significato diverso che in quella occidentale legata al pensiero di Tommaso d’Aquino e che può equivalere grossomodo al nostro concetto di vizio – «è l’ultimo stadio, quello più tragico. Chi soccombe ai pensieri maligni, spesso indebolisce progressivamente il suo carattere. Nasce così una costante inclinazione al male che può diventare forte a tal punto da essere molto difficile resisterle».
Che cosa fare allora quando ci sentiamo assaliti da tali tentazioni? Dobbiamo fermarci e dirci: «Che cosa voglio fare? Che cosa decido?». Davanti a Dio, l’uomo è ciò che liberamente vuole e non ciò che sente contro la propria volontà.