Teologia del popolo, patto delle catacombe, pastorale popolare… L’opzione teologico-pastorale di papa FrancescoIndagini recenti – come quella pubblicata da Gallup nel luglio scorso – mostrano che la popolarità di papa Francesco è diminuita tra i gruppi conservatori della Chiesa negli Stati Uniti. Dal 76% di accettazione del 2014 si è passati al 59% del luglio di quest’anno.
Il calo coincide con due eventi recenti del papa: la pubblicazione dell’enciclica Laudato Si’ e i suoi discorsi in America Latina.
In vista della prossima visita del papa negli Stati Uniti, sono molti gli interrogativi nel contesto di una Chiesa polarizzata come quella nordamericana.
Come teologo latinoamericano, vorrei esporre quella che è l’opzione teologico-pastorale di Francesco, della quale si dibatte poco fuori dal mondo teologico ispanico, perché richiede una certa familiarità con l’evoluzione del magistero della Chiesa latinoamericana e dei movimenti socio-politici e religiosi che hanno preso piede nella nostra realtà.
Una delle carenze in molti tentativi di interpretare l’orientamento del pontificato di Francesco è tralasciare questi aspetti e partire da un’ermeneutica basata sulla sola Dottrina Sociale della Chiesa.
Il recente viaggio di Francesco in Sudamerica ha rappresentato una svolta importante nella comprensione del suo pontificato. Si tratta dell’inizio di una seconda tappa in cui chiarisce il nesso esistente tra i suoi discorsi e le sue linee teologico-pastorali e l’approccio proposto dalla cosiddetta Teologia del Popolo o Teologia della Cultura.
Dallo studio di questa parte della teologia latinoamericana, che nasce nel contesto socio-storico della recezione del Concilio Vaticano II in America Latina, possiamo comprendere che quello che propone Francesco non è un semplice cambiamento di approccio nella pastorale ecclesiale, né un rinfrescare il linguaggio o un aggiornamento delle forme religiose esistenti, ma la riproposizione di un modo di essere Chiesa che riconosce i gravi effetti della crisi strutturale che vive e si propone di riprendere il sentiero tracciato dal Concilio Vaticano II.
Questo nuovo modo di essere della Chiesa assume una portata profetica che si ispira alla cosiddetta Teologia del Popolo o Teologia della Cultura, intendendo l’azione pastorale a partire dal nostro inserimento nella realtà del povero e dall’assunzione dei valori che derivano da questi settori popolari.
Si tratta di un nuovo modo di essere Chiesa a partire dall’opzione preferenziale per questa parte del popolo che sono i poveri, la periferia, e dall’impatto che hanno per generare processi di conversione in tutti noi che viviamo nell’istituzione ecclesiastica e nella società in generale.
Nel contesto di questa opzione teologico-pastorale, binomi come fede e vita socio-politica, o accademia e inserimento pastorale, non possono essere pensati in modo isolato, o provocherebbero una relazione disfunzionale tra il soggetto pensante e la realtà dei poveri a cui si deve moralmente, come ricorda la Laudato Si’: “vivono e riflettono a partire dalla comodità di uno sviluppo e di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale” (LS 49). Come conseguenza, questa mancanza di connessione con la realtà “aiuta a cauterizzare la coscienza” (LS 49).
Questo modo di comprendere l’identità e l’azione della Chiesa si intende a partire da com’è stata la recezione del Concilio Vaticano II (1962-1965) in America Latina come interpretato nella II Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano riunito a Medellín (1968).
Ricordiamo che in Europa questo processo è stato ricevuto come Teologia Politica da Jean Baptiste Metz e Hans Küng, mentre in America Latina si è tradotta come Teologia della Liberazione da parte di Gustavo Gutiérrez, Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino.
In Argentina si è tuttavia verificato un fenomeno speciale, visto che la recezione del Vaticano II attraverso Medellín si è concretizzata nel documento conclusivo della II Assemblea Straordinaria dell’Episcopato Argentino riunito a San Miguel (1969).
I documenti di Medellín e San Miguel hanno analizzato le proposte della Mater et Magistra (1961) di Giovanni XXIII e della Populorum Progressio (1967) di Paolo VI.
Entrambi i pontefici desideravano “una Chiesa dei poveri” (messaggio radiofonico di Giovanni XXIII l’11 settembre 1962) che riconoscesse “il volto di Cristo in ogni povero, come suo sacramento” (visita di Paolo VI a Bogotá, 1968).
Anelavano a una comunità cristiana che capisse che “bisogna riservare ai poveri il primo posto nella Chiesa” (viaggio di Paolo VI in India, 14 settembre 1964).
Francesco chiama questo modello della Chiesa “una Chiesa povera e per i poveri”, ispirandosi al famoso Patto delle Catacombe celebrato a Roma il 16 novembre 1965, quando una quarantina di vescovi, tra i quali monsignor Helder Cámara, proclamò la necessità di tornare alla prassi del Gesù storico attraverso “una Chiesa serva e povera” il cui tratto distintivo doveva essere la pratica della fraternità, della giustizia e della compassione. In questo contesto si sviluppa l’opzione teologico-pastorale di papa Francesco.
La Teologia del Popolo è un ramo della teologia latinoamericana della liberazione sviluppata in Argentina dai teologi Lucio Gera e Rafael Tello, e poi assunta dall’episcopato argentino nel 1969.
Le sue origini risalgono tuttavia al 1966, quando venne creata la Coepal (Commissione Episcopale di Pastorale), che coniò il termine “popolo” inteso come “l’esistenza di una cultura comune, radicata in una storia comune e impegnata con il bene comune”.
Lucio Gera (1924-2012) ha dotato di un profilo proprio questo ramo della teologia della liberazione.
Per lui, la Teologia del Popolo non cerca il cambiamento delle strutture sociali e politiche per se stesse, ma il discernimento della missione e dell’identità dell’istituzione ecclesiastica a partire dalla sua opzione per il popolo povero, espressa in un saldo discorso religioso che promuova il dialogo socio-politico e una prassi pastorale informata dalla giustizia sociale come valore di quel “popolo fedele” che vuole essere seguace della prassi di Gesù (Sebastián Politi, Teología del Pueblo).
Questa opzione teologico-pastorale non parte dall’analisi delle condizioni economiche e socio-politiche per interpretarle alla luce del metodo marxista, come è avvenuto in altri rami della Teologia della Liberazione.
Secondo Gera, il punto di partenza deve essere la connessione reale con il popolo e lo studio della sua cultura o ethos comune.
È lì che si deve trovare sia quello che appare de facto come un ostacolo per il suo sviluppo integrale – socio-economico, politico e religioso – che quanto di positivo si deve salvaguardare di fronte a ogni influenza esterna che pretenda di ideologizzare il popolo e fargli perdere la sua identità, perché “un popolo che dimentica il suo passato, la sua storia, le sua radici, non ha futuro” (Bolivia, 10 luglio 2015).
Per questo, la Chiesa compie un’opzione per custodire quelli che oggi sono scartati. In questo senso, la Teologia del Popolo è parte di un ramo della Teologia della Liberazione che pone la sua attenzione sull’evangelizzazione della cultura attraverso la trasformazione socio-economica, politica e religiosa.
Ciò si traduce nella scommessa sulla promozione integrale del soggetto umano, la promozione del dialogo socio-politico e la pratica della giustizia sociale. Queste forme e nozioni non possono essere lette fuori dalle esperienze e dai conflitti che si sono verificati in Argentina a causa del peronismo.
Già dagli anni Settanta, Francesco aveva una visione molto chiara della condizione politica del cristiano a partire dall’azione pastorale della Chiesa, come ha fatto sapere nel discorso di apertura della Congregazione Provinciale XIV dei gesuiti nel 1974.
In quel discorso ha spiegato come la prassi cristiana – sia religiosa che socio-politica – debba centrarsi sulla fraternità solidale, la giustizia sociale e il bene comune, prima che su nozioni come patria, rivoluzione, conservatori o liberali, che sono escludenti di fronte a ogni dissidenza o alternativa.
Qui Bergoglio insiste sul fatto che “basterebbe ricordare gli scontri non fecondi con la gerarchia, i conflitti tra ‘ali’ (‘progressista’ o ‘reazionaria’) all’interno della Chiesa, che hanno finito per dare più importanza alle parti che al tutto”.
Di fronte a questo fenomeno di polarizzazione istituzionale e divisione ideologica, in ogni ambito, Francesco assume alcuni principi di discernimento, in parte ispirati da Juan Manuel de Rosas, governatore di Buenos Aires alla fine del XIX secolo, come l’unità sul conflitto di fronte a realtà istituzionali polarizzate (Evangelii Gaudium 217-237) e la realtà sull’idea di fronte a tentativi di ideologizzazione del messaggio evangelico (Evangelii Gaudium 231-233).
Questa opzione teologica parte dalla cosiddetta Pastorale Popolare elaborata dalla Coepal e dal Documento di San Miguel e che aveva come precedente l’esperienza dei curas villeros, appoggiata, tra gli altri, dai vescovi Enrique Angelelli ed Eduardo Pironio.
Come prima azione, la comunità cristiana deve inserirsi e incarnarsi nell’esperienza nazionale del popolo e discernere sull’azione liberatrice o salvifica della Chiesa dalla prospettiva del popolo e dei suoi interessi, perché altrimenti, come è avvenuto di recente in America Latina, le ideologie prenderanno piede, e “finiscono male, non servono. Le ideologie hanno una relazione o incompleta o malata o cattiva con il popolo. Le ideologie non si fanno carico del popolo” (Paraguay, 11 luglio 2015).
Dopo un anno di pontificato, Francesco è stato consultato sui curas villeros, legati al Movimento di Sacerdoti per il Terzo Mondo, come padre Carlos Mujica, assassinato nel 1974. La sua risposta è stata: “Non sono comunisti, ma sacerdoti che lottano per la giustizia sociale”.
Ecco una delle chiavi più importanti di questo approccio che permeerà la sua attuale azione teologico-pastorale: la giustizia sociale. Solo partendo dal trinomio giustizia sociale, teologia e azione pastorale si può costruire il bene comune e riumanizzare il mondo, il creato.
Come ha ricordato nel suo discorso a Santa Cruz, esiste un sistema che “continua a negare a miliardi di fratelli i più elementari diritti economici, sociali e culturali. Questo sistema attenta al progetto di Gesù” (II Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, Bolivia, 9 luglio 2015).
L’appello di Francesco è a vivere un cristianesimo profetico che sappia discernere la validità etica e la verità morale dei mezzi socio-politici e religiosi che si utilizzano.
È qui che si misura la necessità di un cambiamento di orientamento sia nella vita politica di un Paese che nelle forme istituzionali di cui la Chiesa ha bisogno per recuperare la sua credibilità nel mondo attuale.
La Chiesa è obbligata a contribuire a questi processi di cambiamento, perché essa, “insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune (…) per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in azioni politiche” (Evangelii Gaudium 241).
La sfida che ha lasciato Francesco nel suo recente viaggio in Sudamerica è quindi quella di ripensare a una Chiesa che sia chiamata a optare per il popolo povero e allontanarsi da “tentazioni di proposte integraliste, più simili a dittature, ideologie o settarismi” (Quito, 7 luglio 2015).
Come ha detto quando era arcivescovo di Buenos Aires nel suo messaggio al termina della IV Giornata di Pastorale Sociale, “l’antivalore di oggi, a mio giudizio, è il mercato umano, ovvero il mercantilismo di persone. L’uomo e la donna diventano un’altra merce dei progetti che non vengono da altra parte, che si installano nella società e che in qualche modo vanno contro la nostra dignità umana. Questo è l’antivalore: la persona come merce nel sistema politico-economico-sociale” (Buenos Aires, 30 giugno 2001).
Il riscatto dell’essere umano come centro e fine della creazione, e ragion d’essere della praxiscristiana, si traduce in questi principi d’azione, come ha sistematizzato il pontefice nel corso del suo recente viaggio in Sudamerica:
a) evitare l’“astrazionismo spirituale”, o credere che possiamo vivere una fede senza luoghi sociali;
b) allontanarsi dal “metodologismo funzionalista”, o i tentativi di giustificare l’uso di qualsiasi mezzo per raggiungere un fine determinato, come può essere la permanenza al potere;
c) assumere un’ermeneutica critica delle “ideologie astratte” che finiscono in una riduzione iodeologica del Vangelo e della praxis cristiana;
d) smontare il “clericalismo e il carrierismo ecclesiale”, segni di una fede che non riesce ad essere fedele al Vangelo non raggiungendo la sua maturità.
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[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]