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«La mia chiesa è la periferia di Buenos Aires»

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Quotidiano Meeting - pubblicato il 21/08/15
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Padre Carlos “Charly” Olivero racconta la vita nelle baraccopoli argentine: «Qui si capisce il “retroterra” di papa Francesco»di Davide Giuliani

«Dio mi mandi dove vuole, ma io non vorrei nessun altro posto rispetto a quello dove sono ora. Ho bisogno di restare nelle villas». Padre Carlos “Charly” Olivero parla così della periferia di Buenos Aires, dove tra poveri e bisognosi vive da oltre dieci anni. Più delle parole, però, quello che colpisce è la faccia con cui racconta di sé e della sua vita di tutti i giorni; un’esperienza che oggi sarà al centro dell’incontro “Una comunità alle periferie: la Chiesa villera a Buenos Aires”.
Il volto di Charly, infatti, è quello di chi affronta con semplicità quello che molti fuggono e così vi scopre ciò che dà senso all’esistenza.

Violenza, droga e prostituzione. Come vive la Chiesa in una delle zone più pericolose della capitale argentina?
Non è solo questo. È vero, la villas 21-24 ha l’indice di omicidi più grande di tutto il Paese e c’è un grande problema con il narcotraffico, ma noi riconosciamo la ricchezza di quanti vi abitano. Ricchezze che c’entrano con lo sguardo cristiano e che si esprimono nel culto, nelle celebrazioni, in una dimensione sociale e comunitaria che è più grande di quella del resto di Buenos Aires. Noi qua al Meeting vogliamo trasmettere questa vitalità, la ripresa della religiosità cristiana con la fede trasmessa di padre in figlio.

Che cosa l’ha spinta a entrare per la prima volta nelle villas?
Era il 2002 e io ero in seminario quando Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, ha introdotto l’idea che potevamo avere cammini di formazione personalizzati. Io mi sentivo “chiuso” all’interno del seminario, così chiesi ai superiori di poter andare a vivere nelle villas, quartieri da cui non mi sono più staccato. All’inizio ero spinto dall’ideale di spendere la mia vita tra i poveri aiutandoli in problemi come l’integrazione o il lavoro, una donazione totale. Quando sono arrivato lì, però, ho iniziato a vivere: il modo di relazionarsi affettuoso, lindo, bello tra gli abitanti mi ha dato modo di scoprire la mia povertà, tanto che oggi mi riconosco bisognoso di loro. Faccio fatica a vivere se non abbracciato da questo amore.

Lì, poi, ha conosciuto l’opera di padre Pepe di Paola.
Sì, all’inizio era il mio parroco. È stato lui a insegnarmi a essere un prete cura villeros, concependo la parrocchia non soltanto come la chiesa, ma come il quartiere. Noi dobbiamo rispondere di tutte le persone che sono nel barrio, non c’è una responsabilità che non sia nostra. Ora lui si è dovuto trasferire, ma rimane sempre parte dello staff degli “Hogar de Cristo”, centri di recupero per tossici nelle villas.

Ecco, ci parli del compito di questa vostra opera missionaria.
La situazione dei ragazzi che consumano il paco (la droga a basso prezzo ottenuta dal residuo chimico della lavorazione della cocaina, ndr) è drammatica. Quando cominci ad assumere questa sostanza, per 7/10 giorni sei costretto a prenderla ogni cinque minuti. Finito questo periodo seguono altri 3 giorni in cui non riesci a fare niente. La dipendenza da essa è molto forte e così la gente fa di tutto per potersi permettere l’acquisto di altre dosi: rubano, si prostituiscono, vendono tutto quello che hanno, compresi i vestiti e i documenti. Ma quello che è peggio è la perdita di tutti i rapporti umani, a cominciare dalla famiglia. Noi andiamo a cercare queste persone. Papa Francesco parla di “primerear”, arrivare prima: questo è quello che facciamo. Dopo questo primo passo occorre coinvolgersi con loro: entrati in rapporto, cominciamo a cercare risposte ai loro problemi più elementari, come i trattamenti in ospedale, la ricerca di un alloggio o l’affrontare i guai con la giustizia. Alcuni degli assistiti poi collaborano con noi nell’aiutare altri ragazzi ancora.

Qual è il guadagno di un’esperienza come questa?
Vivere con la comunità delle villas svela molte attitudini cristiane come la pazienza, l’ospitalità, la sopportazione. Sì, sopportare qualcuno ti costa, e da qui deriva la connotazione negativa del verbo. Ma per me sopportazione significa rimanere nell’amore per l’altro nonostante le difficoltà, e senza avere la pretesa di cambiarlo. Questa coscienza ci porta anche a rispondere ai problemi sul piano sociale, andando incontro allo Stato e alle sue risposte spesso insufficienti. Proviamo a trasformare tutta la comunità, perché quello che occorre è un vero e proprio cambiamento culturale.

Si può ripartire dall’umanità presente nelle villas per costruire quella nuova civiltà di cui spesso parla il Santo Padre?
Non si può universalizzare un modello, ma pensare alla vita in periferia è un punto di partenza per questo processo indicato dal Papa; sono convinto che occorra la comunità nei luoghi più marginali. Noi riconosciamo l’umanità nelle villas; la sfida per l’Europa è capire se questa si possa ritrovare anche nei migranti che arrivano sulle vostre coste. Ci possono dare qualcosa per crescere? Solo in una comunità in cui ci sentiremo tutti uguali e in cui ciascuno potrà contribuire vivremo meglio, più vicini a Dio.

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