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Cosa ha detto Galantino sulla politica italiana?

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 19/08/15
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L’occasione è l’anniversario della morte di De Gasperi, indicato dal presule come esempio di politico cattolico
Oggi si ricorda il 61esimo anniversario della morte di Alcide De Gasperi, un uomo politico e un cattolico autentico che seppe dire dei sì e dei no anche al proprio Pontefice in più di una occasione. Ieri si è tenuto a Trento un ricordo del politico trentino che guidò il paese all’indomani della caduta del Fascismo.

Il segretario della CEI monsignor Nunzio Galantino, al centro di alcune polemiche sulla questione immigrazione con formazioni politiche di ambo gli schieramenti, ha inviato (evitando di presenziare personalmente) una Lectio di 16 pagine in onore di De Gasperi, un lungo e ragionato intervento in cui, come sintentizza Pino Ciociola su Avvenire:
 

il vescovo sottolinea che la politica è «ben altro» rispetto a «un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi».

Una frase che tuttavia va letta nel contesto dell’ampio intervento (sedici pagine) in cui il segretario della Cei analizza la figura di Alcide De Gasperi (esempio a cui guardare), sottolineando che la democrazia «non è soltanto una forma di governo, ma la condizione necessaria per esercitare in positivo le libertà individuali, civili e sociali», un vero e proprio «metodo di vita, un’aspirazione al riconoscimento della dignità delle persone e dei popoli».

Il popolo, dunque, «non è soltanto un gregge, da guidare e da tosare», ma «il soggetto più nobile della democrazia e va servito con intelligenza e impegno, perché ha bisogno di riconoscersi in una guida». Mentre «i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati». Dalla democrazia alla politica, il passo è breve. Politica che può essere l’«ordine supremo della carità» e «questa dovrebbe essere la grande avventura per chi ne sente la missione».

Quanto cioè – avrebbe spiegato ieri sera il segretario generale della Cei – «mi ha spinto a essere fin troppo chiaro, qualcuno ha scritto "rude", negli interventi di questi ultimi giorni, almeno quelli non inventati, sui drammi dei profughi e dei rifugiati: nessun politico dovrebbe mai cercare voti sulla pelle degli altri e nessun problema sociale di mancanza di lavoro e di paura per il futuro può far venir meno la pietà, la carità e la pazienza».

La laicità, poi. Che «non è libertà individuale di fare ciò che si vuole, non concerne leggi che devono assecondare i desideri di ciascuno» – sottolinea monsignor Galantino – e «non è nemmeno una semplice morale laica, da piccoli borghesi garantiti dal benessere», ma «in positivo, un progetto di vita fondato sul rispetto della complessità dell’uomo, sulla tradizione storica e sulla fiducia nella capacità della politica di trovare un punto di mediazione che non sia la rinuncia a ciò che si crede» (Avvenire, 18 agosto).

Come poi annota il vaticanista di Internazionale, Francesco Peloso, nell’intervento di Galantino c’è molto rimpianto per la Prima Repubblica e per una formazione della classe dirigente – di tutte le componenti politiche – di spessore infinitamente più alto di quella attuale e con un radicamento sociale imparagonabile all’attuale:

Galantino nella sua lectio se l’è presa naturalmente anche con la politica (“piccolo harem di cooptati”), con il populismo leghista (“i populismi sono un crimine di lesa maestà di pochi capi spregiudicati nei confronti di un popolo che freme e che chiede di essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia”), con un riformismo senz’anima che rischia di diventare “puro movimento”.

Oltre a De Gasperi, Galantino ha citato il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, il leader comunista Palmiro Togliatti, che volle il concordato con la chiesa incardinato nella costituzione, Romano Prodi in quanto critico verso il principio dell’uomo solo al comando, il leader socialista Pietro Nenni che parla di De Gasperi nei suoi diari, il costituzionalista Leopoldo Elia e lo storico cattolico Pietro Scoppola, oltre ad Aldo Moro e Amintore Fanfani. Un pantheon così fortemente “prima repubblica” che non poteva non suscitare il fastidio del governo, il quale ormai ha capito una cosa: bisognerà fare i conti con un mondo cattolico frastagliato, non più felpato, in cui si esprimono voci diverse e un episcopato in libera uscita (Internazionale, 19 agosto).

Un intervento quasi da “legato pontificio”, più ancora che da segretario della CEI:
 

“Siamo di fronte – afferma il segretario della Cei – alla necessità non solo di una nuova forma di convivenza fra i popoli, ma anche di un nuovo modello macroeconomico, di una nuova politica industriale, di una politica dei diritti sociali più completa. Chi pensa, chi adotta, chi realizza queste riforme?”. “Esse – ha spiegato – richiedono una democrazia costruita con un di più di ascolto, un di più di precisione e di attenzione ai dettagli, per adattare i grandi princìpi dell’uguaglianza e della solidarietà a regole sempre nuove di giustizia, che non può rimanere una questione confinata nelle aule dei tribunali” (Lectio di Monsignor Galantino).

Quello in atto sembra l’avverarsi di quanto preannunciato in una intervista dell’anno scorso alla rivista Il Regno, in cui il segretario della CEI spiegava come la Chiesa dovesse allontanarsi dalla tentazione del potere e di come questa tentazione fosse inscindibile dalla questione del “clericalismo”:
 

«Per affrontare correttamente il tema dell’adeguata partecipazione dei laici, uomini e donne, alla vita della Chiesa dobbiamo affrontare di converso anche il tema del clericalismo diffuso nella Chiesa. Prima che un cattivo comportamento (una libido dominandi), il clericalismo è un errore teorico, propriamente da ricondurre alla teoria delle “due città” con la quale si definisce che i cristiani (preti e laici) abbiano una loro città da imporre agli altri uomini, mentre in realtà essi vivono nella città comune. Il clericalismo è spesso espressione della volontà di potere, mentre la Chiesa “popolo di Dio”, come l’ha definita la Lumen gentium, si caratterizza per la responsabilità nell’esercizio della carità e porta, conseguentemente, con sé la negazione della volontà di potere, che si esprime attraverso le varie forme di clericalismo. Quando questa presa di coscienza sarà piena, solo allora avremo un vero e proprio cambio d’epoca nella Chiesa» (Il Regno, giugno 2014).

 

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