Sull’emozione di essere genitori
Qualche giorno fa a mia madre è uscita di bocca una frase incauta. “Ma perché non me li mandi tutti, i ragazzi, qualche giorno a Perugia?” L’ha detto. L’ho sentita. Non so quanto poi ci abbia messo a pentirsene, ma l’ha detto. Segue una lunga contrattazione: la mamma dei quattro in oggetto – che sarei io – è riluttante, il babbo pure: ci dispiace separarci dai figli, ma fa caldo, non c’è scuola, noi dobbiamo lavorare, e così si incastrano impegni e turni e si raggiunge l’accordo. Due giorni e mezzo dai nonni. Porta il babbo, riprendo io così sbaciucchio qualche nipote a caso.
Nella fervida fantasia di una madre lavoratrice stremata dalla stanchezza due giorni e mezzo senza figli assumono istantaneamente proporzioni fantasmagoriche: superato il dispiacere della separazione comincio a fare progetti.
Riordinerò ricevute, credenze, cassetti, leggerò libri arretrati, andrò dall’estetistaparrucchierepodologo, farò ore e ore di meditazione, anzi, credo che diventerò una suora di clausura ma anche un po’ una maratoneta da due e cinquanta, una donna meravigliosa dallo spirito saldo, il corpo efficiente, la mensola delle spezie senza barattolini scaduti, il marito ascoltato come merita.
C’è quel piccolo particolare, che due giorni e mezzo sono in realtà solo sessanta ore, un po’ poco per riorganizzare una vita, e bisogna anche lavorare, nutrirsi, occasionalmente anche dormire, e trascorrere tempo al telefono con la nonna cercando – vanamente – di carpirle la frase “hanno detto che gli manchi”, o almeno un “ti hanno nominata”. Insomma, il tempo se ne scivola via dalle mani, mentre si fa sempre più chiara la consapevolezza che la mia vita senza estetista e ricevute ordinate non è un incidente di percorso o un errore, ma è esattamente la mia vita.
Una sera devo lavorare, fare delle riprese in notturna (la distribuzione del cibo ai poveri della Stazione Ostiense). Un’altra sera riusciamo finalmente a dedicarcela io e mio marito, andiamo in un ristorante che ci aveva incuriositi perché si chiama come il nostro preferito del Village – non è all’altezza, ma pazienza. Intanto però riusciamo miracolosamente a finire delle frasi senza neanche un “mammaaaa! Lui mi ha menato!” e a restare soli a telefoni spenti. La differenza con una cena da fidanzati è che non si può più andare in due in motorino, perché il pensiero che se ci schiantiamo lasciamo quattro orfani sta sempre lì.
Per il resto, un po’ di tempo avanza, è vero. Qualche ora libera c’è, ma non servirà al mio restyling esistenziale, anche perché forse – sto scoprendo – non ne ho bisogno. E’ la mia vita, fatta di marito figli lavoro e di tante altre persone che mi impediscono di fare di me sempre quello che vorrei. E questo non è un male, anzi. Sono loro che mi salvano da me stessa, dal mio egoismo. Sono bastate poche ore per tornare alla vita svaccata dell’epoca in cui vivevo da sola: Gloria Gaynor cantata a squarciagola in mutande in corridoio, col mestolo come microfono, pasti precotti sul divano che accoglie il mio accasciamento in solitaria (quando mio marito lavora), quindici vestiti buttati sul letto perché non ho niente da mettere e soprattutto non ho occhi innocenti che mi guardano a cui dare il buon esempio, incapacità di dare un ordine al tempo (è vero, era poco, ma sono riuscita a sprecarlo quasi tutto).
Gli anni però non sono passati invano, e così decido di approfittare del lavoro serale di mio marito per andare a fare un po’ di adorazione a Santa Anastasia (c’è una chiesa a Roma con il Santissimo esposto giorno e notte), e lì il capo mi spiega che la mia famiglia mi ha salvato la vita. Mi ha salvata da me stessa, dal mio disordine, dalle mie passioni, dall’egoismo. Mi spiega che anche se ci ho messo un libro per dirlo agli altri io forse non l’ho capito davvero che
Obbedire è meglio. Obbedire alle circostanze nelle quali siamo messi a vivere ci salva la vita, e ogni volta che qualcuno ci scomoda, in realtà ci salva. Lo può fare un figlio, un marito, una moglie, o chiunque altro abbia bisogno di noi (così come qualche volta siamo noi ad avere bisogno e a scomodare qualcun altro). Lo può fare chiamandoci, chiedendoci qualcosa, prendendosela anche, perché il Vangelo non dice “a chi ti chiede il mantello” ma “a chi ti PRENDE il mantello tu da’ anche la tunica”.
Gironzolando per il quartiere Monti con mio marito, vedendo tanti localini supercool, pieni di ragazzi ma anche di adulti belli maturi come noi (magari alcuni avevano pure chiamato la baby sitter e si erano concessi una cena da soli), abbiamo pensato che no, non ci piacerebbe fare sempre quella vita. Avere tanto tempo da spendere in giro per locali, cinema o magari vacanze in giro, come sarebbe se fossimo una coppia dink (double income no kids). Abbiamo pensato che ci piace tanto la nostra fatica di essere padre e madre, che esserci messi a disposizione della vita è quello che ci ha resi adulti, come per altri – sto pensando a un’amica in particolare – è stato il fatto di essersi fatta docile alla sua malattia. Non che essere genitori sia solo fatica, né che sia una croce come la malattia, ma voglio dire che per la mia esperienza è stato quello che mi ha insegnato a non obbedire solo a me stessa. E se all’inizio questo ti scomoda un po’, poi scopri che è l’unica cosa che ti rende davvero felice. Qui. Adesso.