La situazione insostenibile dei cristiani in Iraqdi Marta Petrosillo
«Ai cristiani è stato chiesto di scegliere tra convertirsi, pagare la jizya o emigrare. Non vi era una quarta scelta. È chiaro che siamo di fronte ad una persecuzione». Così ha dichiarato l’arcivescovo caldeo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda, intervenuto ieri ad un convegno organizzato dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.
Dall’inizio dell’avanzata dello Stato Islamico nella diocesi di monsignor Warda sono arrivati circa 120mila i cristiani rifugiati in Kurdistan, per lo più divisi tra il capoluogo Erbil e Duhok, città a una quarantina di chilometri a Nord di Mosul. La maggior parte dei cristiani è giunta nell’agosto 2014 dopo la conquista da parte di Isis della Piana di Ninive. Accanto a loro, sono giunti anche yazidi e musulmani. Gli sfollati interni in Iraq sono più di due milioni e molti di loro hanno scelto di riparare in Kurdistan. Monsignor Warda ricorda i primi drammatici momenti: «Non avevamo la possibilità di dare alloggio a migliaia di famiglie, ma fortunatamente ci siamo riusciti grazie al sostegno di realtà come Aiuto alla Chiesa che soffre, che ha donato il 60% degli aiuti ricevuti dalla mia diocesi, e la Conferenza episcopale italiana».
Nei primi mesi, i rifugiati hanno vissuto nelle tende, nelle scuole, negli edifici abbandonati. Oggi tutti i cristiani hanno un alloggio dignitoso. Il sostegno economico ricevuto permette alla Chiesa di pagare l’affitto di una cinquantina di appartamenti per le famiglie con più difficoltà. Altre vivono in strutture prefabbricate. Monsignor Warda racconta delle 50 richieste d’aiuto che ancora riceve ogni giorno e di come il suo telefono non cessi mai di squillare, anche a notte fonda.
«La Chiesa cerca di restituire ai fedeli la fiducia e tenere unita la comunità cristiana». Ma nonostante gli sforzi, molte famiglie sono già emigrate. Circa 8mila cristiani hanno preferito trasferirsi in Libano, Turchia, Giordania, oppure in Europa e in America. «Purtroppo la loro vita all’estero non è migliore. Il visto turistico che hanno utilizzato per fuggire, non permette loro di lavorare e negli ultimi quattro mesi alcuni sono tornati in Iraq».
L’afflusso dei rifugiati ha avuto gravi conseguenze sulla locale comunità cristiana, composta in parte dalle 6mila famiglie che dal 2003 al 2014 si erano trasferite in Kurdistan per «sfuggire alle persecuzioni anticristiane in atto a Bagdad, Mosul e Kirkuk». Monsignor Warda sottolinea come il dramma dei cristiani abbia radici ben più antiche dell’ultima crisi. «All’inizio della guerra eravamo un milione e 300mila, oggi siamo meno di 400mila». In questi anni sono stati uccisi più di 1700 cristiani, «anche se l’attenzione del mondo si è destata soltanto dopo l’avanzata dello Stato Islamico. E in seguito all’attentato a Charlie Hebdo tutti hanno compreso che Isis è un fenomeno globale e non limitato al solo Medio Oriente».
Guardando al futuro del suo paese, monsignor Warda individua tre passi da compiere. Innanzitutto è necessario che la comunità internazionale eserciti pressioni sul governo iracheno affinché «trovi delle soluzioni concrete e risolva le divisioni interne, anziché alimentarle». Oltre al lavoro di riconciliazione, il presule ritiene pressoché imprescindibile un intervento militare. «Isis è un cancro e deve essere fermato». Infine si deve porre un freno anche alla persecuzione cristiana. «A volte più che vittime siamo considerate danni collaterali».
Riguardo al livello di sicurezza, monsignor Warda spiega come lo Stato Islamico sia davvero vicino al Kurdistan. La situazione sembra essere sotto controllo ma non si possono escludere futuri attacchi. «La notizia della conquista di Ramadi, ad esempio, ci ha davvero colti di sorpresa». Il vescovo pone l’attenzione sulla necessità di mettere in sicurezza le aree sottratte ad Isis. Anche qualora Mosul e la Piana di Ninive fossero liberati immediatamente, i rifugiati dovrebbero attendere almeno un anno prima di poter ritornare nelle proprie case. «È inoltre indispensabile un investimento nella ricostruzione e lo sviluppo delle città e dei villaggi riconquistati. Tikrit è stata liberata, ma è ancora deserta perché è distrutta e nessuno vuole viverci. E se non è stata ricostruita una città sunnita, come possiamo sperare che lo sarà un villaggio cristiano come Qaraqosh?».