Oggi si aggira un clericalismo diverso da quello anticoDevo confessare che ho provato un certo malessere, a leggere il discorso di Francesco ai vescovi italiani. Avrei dovuto gioire per quell’invito che ha fatto, a “rinforzare l’indispensabile ruolo dei laici disposti ad assumersi le responsabilità che a loro competono”. E invece è stato un altro il passo che mi ha più colpito, e lasciato perplesso: è stato là dove il Papa ha affermato che i laici, in possesso di una formazione cristiana autentica, “non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità di un vescovo pastore!”.
Ebbene, se il capo, ripeto, il capo della Chiesa cattolica ha dovuto richiamare un principio del genere – ricordandolo a vescovi e sacerdoti, anzitutto, ma anche a certi laici, spesso più clericali dei preti – non c’è forse da chiedersi dove sia finita quella immensa carica di novità che il Concilio Vaticano II, recuperando dalla tradizione antica la bellissima immagine del “popolo di Dio”, aveva immesso nel corpo del cattolicesimo? E che, sparita la rigida separazione di “ordini”, aveva portato a riconoscere finalmente ai laici una vera responsabilità nella vita e nella missione ecclesiale?
Quando il Vaticano II era cominciato, il laico cristiano era ancora considerato un “minorenne”, anzi, un “oggetto misterioso”, non essendo né prete né monaco. Ma poi c’era stata la svolta. La Chiesa – aveva detto un padre conciliare, lo statunitense Ritter – non poteva continuare a “trattare i laici come un padrone tratta i suoi operai”. Così, facendo precedere il capitolo sul “popolo di Dio” a quello sulla gerarchia, e quindi riaffermando l’unità di tutti i membri della comunità cristiana in forza del comune battesimo, la costituzione “Lumen gentium” aveva sanzionato il ruolo specificamente ecclesiale dei laici. Un’altra costituzione, la “Gaudium et spes”, ne aveva sottolineato la condizione secolare. E infine il decreto “Apostolicam actuositatem” aveva delineato i fini dell’apostolato laicale e i diversi campi di impegno.
Tutto perciò lasciava credere che si fosse aperta una grande stagione per il laicato cattolico. Sulla scia del Sinodo dei Vescovi del 1987 e della successiva esortazione apostolica “Christifideles laici”, si era registrato un massiccio ingresso dei laici nel servizio liturgico, nella catechesi, nel settore caritativo, nel volontariato. Poi, lo sviluppo rigoglioso dei nuovi movimenti, dei gruppi biblici e di preghiera. E ancora, la sempre più vasta presenza delle donne, specialmente nella trasmissione della fede a bambini e ragazzi. La lettera apostolica “Mulieris dignitatem” di Giovanni Paolo II era stata un solenne riconoscimento del “genio femminile”, e quindi dei carismi delle donne, della loro vocazione, della loro missione specifica nella Chiesa.
Ma perché tutto questo, in seguito, non s’è tradotto in prassi pastorale? Perché è rimasto come un fossato tra i documenti pontifici, da una parte, e, dall’altra, i comportamenti di molti parroci e anche di non pochi vescovi?
Nel post-Concilio, all’inizio, c’era stata una eccessiva preoccupazione nell’attuare prevalentemente le riforme esterne, strutturali. Poi, con il passare del tempo, molti uomini di Chiesa si erano rivelati fortemente contrari ai grandi cambiamenti varati dal Vaticano II. E, a farne maggiormente le spese, era stata proprio la costituzione-cardine, la “Lumen gentium”. L’immagine del “popolo di Dio” (oltretutto deformata da indebite interpretazioni politiche) era via via scomparsa: e, con essa, le tante nuove prospettive legate all’ecclesiologia di comunione. Così, venendo a mancare l’impianto teologico-pastorale, non era mai veramente decollata quella rete di strutture diocesane – Consigli pastorali e presbiterali – che avrebbero dovuto promuovere la vita ecclesiale.
Stando così le cose, e quindi non sentendosi ancora pienamente soggetti attivi nelle loro stesse comunità, che cosa hanno fatto i laici? Molti hanno continuato a rifugiarsi nel sistema della “delega”, per cui, se venivano incaricati di un compito, non lo erano in quanto responsabili anche loro del progetto cristiano, ma solo come “collaboratori”. Altri, specialmente i più giovani e le donne, si sono buttati nel volontariato, trovando immediatamente dove impegnarsi e gratificazione personale. Altri ancora – perpetuando un clericalismo alla rovescia – hanno invece ritenuto che la loro vocazione cristiana potesse meglio realizzarsi nell’ambito liturgico-sacramentale. E dunque, chi più e chi meno, per propensione personale ma spesso perché non avevano né la spinta né il supporto del sacerdote o del vescovo, un “vescovo pastore”, un po’ tutti hanno finito per disertare quello che, proprio in ragione della loro indole secolare, dovrebbe essere per eccellenza il campo d’azione della laicità cristiana, cioè il mondo politico, sociale ed economico. Esattamente ciò di cui si lamentava Francesco!
E questo porta alla seconda considerazione sul discorso del Papa ai vescovi italiani, e, anche qui, al senso di sofferenza che se ne è provato. Francesco lo ha detto in maniera un po’ colorita, ha parlato di “vescovo-pilota”, di “monsignore-pilota”; ma intendeva chiaramente riferirsi all’esistenza di un nuovo clericalismo: un clericalismo diverso da quello antico, di quando la Chiesa era completamente nelle mani dei chierici, ma forse ancora più pericoloso. Perché non è solo una mentalità, una cultura clericale, non è solo un modo per “far carriera”; si tratta di comportamenti e atteggiamenti che poi, diventati come una seconda natura del chierico, portano a considerare la missione della Chiesa in una visione sostanzialmente gerarchica, autoritaria.
Francesco, in quel discorso, si rivolgeva all’episcopato italiano. Ma questo nuovo clericalismo non rappresenta un fenomeno ascrivibile solo all’Italia, è diffuso in molti altri Paesi: curie diocesane dove il vescovo tratta i suoi preti con grande distacco, sempre con un’aria di superiorità, mai come un padre; e parrocchie, tantissime parrocchie, dove ci sono parroci che vogliono decidere su ogni più piccola iniziativa, e considerano i laici come semplici aiutanti, sottomessi e ubbidienti. E non si pensi a sacerdoti per lo più anziani. Già quindici anni fa, la Commissione per il clero della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) aveva riscontrato come, proprio tra i presbiteri più giovani, tendessero a riemergere manifestazioni di “chiusura o di clericalismo”, e “un individualismo, duro a morire anche all’interno del presbiterio”.
Ed ecco perciò il senso di quelle parole di Francesco, di quell’invito pressante ai vescovi, ai preti, a lasciare nella Chiesa il dovuto spazio ai laici, alla loro creatività; e, nello stesso tempo, l’invito ai laici ad affrontare le proprie responsabilità, nella comunità ecclesiale ma soprattutto nei vari ambiti della vita sociale. Soltanto così, soltanto attraverso un impegno collettivo, comune, di vescovi, preti e laici, sarà possibile – come papa Bergoglio diceva nella “Evangelii gaudium” – avviare un grande processo di rinnovamento spirituale e missionario. E, in questo modo, rilanciare quel nuovo progetto di Chiesa tracciato dal Concilio: una Chiesa segnata dalla trascendenza e, insieme, dalla laicità, dagli aspetti istituzionali e dai carismi; una Chiesa in cammino, aperta al mondo, e che sappia sprigionare la “forza rivoluzionaria” del Vangelo.