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La “solitudine” di papa Francesco

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 28/05/15
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E’ vero che è così isolato all’interno della Curia romana?Ma papa Francesco è realmente isolato? Ed è vero che molti nella Curia romana non condividono il suo programma di riforme? E che il fronte dell’opposizione, dal Vaticano, si sta allargando anche a diversi episcopati?

Sono passati più di due anni dalla elezione pontificia di Jorge Maria Bergoglio, e non tende ad attenuarsi il consenso popolare attorno al nuovo Papa. Un consenso mai registrato prima, almeno nei tempi moderni, con queste dimensioni e in maniera così trasversale, perché non si tratta solo di credenti ma anche di laici, e perfino di agnostici. In questo momento, Francesco è il personaggio più conosciuto nel mondo, e probabilmente anche il più amato. E’ il leader, anzi l’unico leader, che per la sua autorità morale, per la sua credibilità, riesce a farsi ascoltare nei consessi internazionali, nelle situazioni di crisi.

Eppure, periodicamente, rispuntano fuori gli stessi interrogativi, gli stessi dubbi, sull’isolamento del Papa, sull’ostilità di certi settori ecclesiastici nei suoi confronti. E ad alimentare interrogativi e dubbi, oltre che i media, sono spesso – e in contraddizione tra di loro – anche persone vicine al Papa.

Ad esempio, uno degli uomini che conosce meglio Bergoglio, mons. Victor Manuel Fernandez, rettore della Universitad Catolica Argentina, se ne è uscito così: “I suoi oppositori sono più deboli di quanto non credano. La Curia vaticana non è una struttura essenziale. Il Papa potrebbe pure andare ad abitare fuori Roma, avere un dicastero a Roma e un altro a Bogotà…”. Invece, il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini, ha smentito seccamente una “lotta” tra Francesco e la Curia. “Il Papa non è assolutamente isolato, al contrario la Chiesa, tutta la Chiesa, gli vuole bene e lo segue con fede”.
E intanto, chiaramente ispirato da “gole profonde” (e interessate) del mondo vaticano, il “Corriere della Sera” ha dato addirittura delle percentuali circa l’entità del consenso-dissenso in Curia: sarebbero il 20 per cento i sostenitori; il 70 per cento la maggioranza “silenziosa e indifferente”, che attende solo un altro Pontefice; e, il 10 per cento, lo zoccolo duro degli ”avversari”.

Tutto questo, però, non riesce a spiegare ciò che sta avvenendo nella Chiesa cattolica, in seguito all’arrivo del primo Papa latino-americano. Per capirlo, e, a maggior ragione, per capire il senso della solitudine “istituzionale” in cui si è venuto a trovare Francesco, bisogna risalire al preciso mandato che i cardinali in Conclave, eleggendolo, gli avevano affidato: quello, cioè, di mettere ordine nella Curia romana e, più in generale, nella Chiesa. In altre parole, una elezione che era avvenuta nel segno della discontinuità, della volontà della maggioranza del Sacro Collegio di aprire le porte al cambiamento.

Ma un conto è decidere – e già questo era stato un fatto eccezionale – di avviare una grande opera di rinnovamento spirituale e pastorale. E un conto, poi, realizzare concretamente quest’opera, e quindi dover fare i conti con le persone, gli organismi, le istituzioni, i gruppi di potere, ma anche con le tradizioni, le mentalità, e con le pigrizie, i pregiudizi, e, inevitabilmente, con le resistenze, con il si-è-sempre-fatto-così. Ed ecco perché, se adesso Francesco è un Papa sostanzialmente solo, lo è anche e soprattutto come conseguenza del compito, immenso e gravoso, del quale era stato incaricato.

E appunto per assolvere questo compito – pur nella linea di quella continuità, pastorale e missionaria, che da Giovanni XXIII, e dall’inizio del Concilio Vaticano II, ha contrassegnato il cammino della Chiesa – Francesco ha dovuto compiere tutta una serie di gesti di rottura, rispetto a un passato di immobilismo o quanto meno di auto-conservazione, di mantenimento dello statu quo. E lo ha fatto, non per la frenesia di innovare, di cambiare, ma per ritornare alle fonti originarie, al Vangelo, alla parola di Dio. Come diceva il cardinale Walter Kasper: “Nessun Papa può edificare una nuova Chiesa e inventare di nuovo la Chiesa, ma può e deve rinnovare l’unica Chiesa di tutti i secoli…”.

Ebbene, secondo alcuni degli oppositori, la “rivoluzione” di Bergoglio sarebbe andata molto più avanti di quanto gli avessero chiesto gli stessi cardinali elettori. E, in effetti, Francesco ha cambiato radicalmente il modo di “fare” il Papa. Lo ha cambiato con il suo stile, tutto personale, con i suoi gesti, spesso contro-corrente, e, in particolar modo, lo ha cambiato con un linguaggio a volte sconvolgente. Gran parlatore a braccio, è schietto, diretto, impulsivo, e così corre il rischio di generalizzare, di suscitare malumori, perplessità. E lui stesso ne è cosciente, come ha confessato nell’ultima intervista: “…tendo a essere temerario, a lanciarmi senza misurare le conseguenze”.

E comunque, le contrarietà più forti, sembrerebbero venire dalla “novità” stessa rappresentata dall’arrivo di un latino-americano sulla cattedra di Pietro: e, più precisamente, dalla visione di Chiesa di cui Bergoglio si è fatto portatore, sulla base della propria esperienza, del proprio bagaglio culturale, e della propria sensibilità, cioè la sensibilità spirituale e pastorale di chi sa guardare le vicende del cattolicesimo anche dalla “periferia”. Per questo, avendo spalancato troppi orizzonti tutti assieme, e avendo bruciato le tappe per mettere il più possibile dei “paletti”, in modo da evitare che un domani si potessero cancellare i cambiamenti già effettuati, per questo, si diceva, Francesco è andato avanti da solo, senza aspettare che gli altri lo seguissero: con il risultato – senza volerlo, naturalmente – di infoltire le fila di quanti non riescono a camminare con il suo stesso passo o hanno difficoltà a entrare in sintonia con il suo programma, oppure gli erano già pregiudizialmente contro.

E qui, a fare l’osservazione più giusta, e a dare anche una preziosa indicazione per il futuro, è stato il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano: “(Francesco) ci ha messo davanti l’urgenza di assumere il nostro compito di cristiani in maniera diversa. E questo porta con sé una salutare dose di destabilizzazione, perché uno se non è provocato non cambia”.

 

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