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E se quella pallottola avesse colpito il “bersaglio”?

ITALY, Rome : Pope John Paul II (L) greets Mehmet Ali Agca at Rebibbia prison on December 27, 1983 in Rome. Agca attempted to kill pope John Paul II on May 13, 1981. He was arrested and has spent nearly three decades in prison for his crime.
AFP PHOTO/OSSERVATORE ROMANO/ARTURO MARI

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 13/05/15
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Chi c’era veramente dietro l’attentato di Alì Agca a Giovanni Paolo II?

“Ma perché lei non è morto?”

Giovanni Paolo II era entrato nella stanzetta del carcere di Rebibbia con dentro un misto di emozione e di curiosità. Curioso di guardare negli occhi l’uomo che due anni e mezzo prima, in piazza San Pietro, gli aveva sparato per ucciderlo.

Era andato lì per ripetere ad Alì Agca che lo aveva perdonato. E proprio per dare un senso a quel gesto di amore cristiano, un senso che l’altro potesse quindi capire, nel salutarlo gli aveva subito detto: “Oggi ci incontriamo da uomini. Anzi, da fratelli”. Ma gli stava ancora stringendo la mano – proprio la mano destra, quella che aveva impugnato la pistola per sparargli – quando si era sentito fare quella incredibile domanda: “Lo so di aver mirato come dovevo. So anche che il proiettile era devastante, mortale. Ma allora perché lei non è morto?”.
 

Wojtyla lo aveva guardato sorpreso; ma, lo si sarebbe saputo più tardi, quelle parole lo avevano sconvolto. Non riusciva a capire. D’accordo, aveva di fronte un assassino, ma, in quel momento, non riusciva ugualmente a capirlo. E intanto si erano seduti su due piccole seggiole, l’uno piegato verso l’altro, le teste chequasi si sfioravano. Sembrava che il Papa lo stesse confessando. E invece Alì Agca continuava a insistere, a domandargli come mai fosse ancora vivo: era ossessionato dal dover ammettere che esistesse “qualcuno” più forte di lui, capace di neutralizzare la sua mira infallibile.

Sulle prime il Papa si era limitato a ripetere quel che aveva detto altre volte: “Vede, una mano, la sua mano, ha sparato, eun’altra mano ha guidato la pallottola”. Ma, a sentir così, il turco si era ancor più angosciato: “Scrivono che è stata la ‘deadi Fatima’ a salvarlo. Ma che vuol dire? Fatima è la figlia di Maometto”. E il Papa: “E’ anche il luogo dove la Madonna è apparsa a dei bambini, a dei piccoli pastori”. E Agca: “Allora è una potente. Quando esco di qui, può farmi fuori!”. E il Papa con un sorriso: “Ma no! Ma no! E’ una donna buona. Anzi, potrà aiutarla nella sua vita”.

Di quel colloquio, Giovanni Paolo II si portò dentro due momenti. Anzitutto – ed è una delle cose che più lo avrebbe angustiato fino alla fine dei suoi giorni – il fatto di non aver mai sentito Alì Agca chiedere perdono.

Per questo, in un primo momento, gli aveva anche scritto una lettera: “Caro fratello, come potremo presentarci al cospetto diDio se qui, sulla terra, non ci perdoniamo a vicenda?”. Poi, però, gli avevano consigliato di non inviare la lettera, Agca l’avrebbe sicuramente strumentalizzata. E così, due giorni dopo il Natale del 1983, papa Wojtyla era andato a trovarlo in carcere. Era andato con la speranza di ascoltare quelle parole. E invece, niente. Il turco non aveva chiesto perdono, non ci aveva nemmeno pensato. A lui interessava solamente capire perché la sua Browning calibro 9 non avesse centrato il “bersaglio”.

“Perché lei non è morto?”. Quella domanda era stato l’altro momento del colloquio che Giovanni Paolo II non avrebbe più dimenticato. Gli rimase dentro come una ferita. E, per certi aspetti, gli fece anche comprenderechi fosse l’attentatore e chi ci fosse dietro di lui. Scrisse infatti in “Memoria e identità”, il suo ultimo libro: “Alì Agca, come tutti dicono, è un assassino professionista. Questo vuol dire che l’attentato non fu un’iniziativa sua, che fu qualcun altro aidearlo, che qualcun altro l’aveva a lui commissionato…”.



Non aggiunse altro, Wojtyla. Ma, avallando comunque l’ipotesi del complotto, obbligava automaticamente a prendere in considerazione lo scenario geopolitico che si era creato dopo l’arrivo di uncardinale polacco sulla cattedra di Pietro. L’immediato sconcerto dei dirigenti comunisti si era poi tramutato letteralmente in panico collettivo dopo il primo viaggio di Giovanni Paolo II nella sua patria (“La gente ha rialzato la testa”, dirà Lech Walesa), e, più ancora, dopo la nascita di Solidarnosc, la prima grande rivoluzione operaia nell’impero sovietico.

C’era il rischio che l’Armata Rossa invadesse la Polonia. Il Papa aveva scritto a Breznev, ma non aveva mai ricevuto risposta. Al Cremlino si stava già pensando a come farla finita con il “bubbone” polacco. In quei giorni stava morendo il primate, il cardinale Wyszynski. Se non ci fosse stato a Roma l’altro grande “protettore” del sindacato libero, tutto si sarebbe risolto rapidamente. E allora? Già qualche anno fa, il cardinale Stanislao Dziwisz, ch’era stato segretario particolare di Giovanni Paolo II, aveva scritto: “Come non pensare al mondo comunista? Come non arrivare, risalendo su su a chi aveva deciso l’attentato, come nonarrivare, almeno in linea di ipotesi, al Kgb?”.

Ho visto in questi giorni l’arcivescovo Dziwisz. Mi ha ripetuto ancora una volta di non credere assolutamente né alla “pista bulgara” né a una “pista islamica”. E, ancora una volta, ha ribadito quel che, a suo giudizio, avrebbe fatto scattare – a livello di servizi segreti dell’Est, o almeno di schegge impazzite di quei servizi – la decisione di eliminare il Papa polacco. “Volevano – ha detto – soffocare il risveglio polacco!”.

Appunto! Se quel pomeriggio del 13 maggio del 1981, la Browningcalibro 9 avesse centrato il “bersaglio”, che cosa sarebbe accaduto? La storia del mondo, e in particolare la storiadell’Europa centro-orientale, sarebbe stata la stessa? Il Muro sarebbe crollato così presto? Vengono i brividi, solo a pensarci. Ma era scritto – nei disegni della Provvidenza – che andasse così. Che la mano della Madonna deviasse il “corso” della pallottola. E che Alì Agca continuasse per tutta la vita a chiedersi disperatamente: “Ma perché non è morto?”.

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