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Cosa c’entrano Gesù, Marx e il pensiero gender?

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La Croce - Quotidiano - pubblicato il 30/04/15
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Per una nuova chiave di lettura economicadi Fabio Torriero

Cosa c'entrano Gesù, Marx e il pensiero gender? Hanno a che fare con l'interpretazione della parabola dei talenti. Per qualcuno la parabola sarebbe la legittimazione cristiana del capitalismo.

Ma andiamo per ordine. Stiamo riassumendo i contenuti di una polemica suscitata dalle analisi di Alain De Benoist, filosofo francese, fondatore della Nouvelle Droite, ateo convinto, il quale ha sostenuto il collegamento tra capitalismo liberale, mistica del desiderio e pensiero gender.

Tesi che hanno stimolato una interessante riflessione anche sulle colonne del settimanale “Tempi”, da parte di una lettrice di matrice cattolico-liberale (Giovanna Jacob). Ora, naturalmente, non è mia intenzione affibbiare etichette tardo-ideologiche alle persone o giudicarle in quanto tali (siamo tutti in viaggio, in cammino, siamo “uomini-ponte”, non “uomini-mura”, come ha scritto Sua Santità), quanto contribuire in modo più specifico ad una riflessione a 360 gradi, che credo possa riguardare i cattolici impegnati sul campo.

Il tema è ridisegnare nuovi scenari per rafforzare la buona battaglia cattolica antigender, uno dei tanti (e più preoccupanti) falsi miti di progresso. Dunque, Alain De Benoist ha detto esplicitamente a IntelligoNews che il pensiero gender è figlio del liberal-capitalismo, perché se l'economia si basa sul desiderio (e non sulla necessità), per sua natura, il desiderio individuale è illimitato. Ed è del tutto normale che una visione economica di questo tipo non possa non riflettersi col tempo sul modo di pensare, sulla politica, sulle scelte esistenziali e sulla vita intima (sessuale) delle persone. Il gender altro non è che l'acquisto, la vendita, la svendita di tutto (sesso, identità, mogli, mariti, figli, uteri, seme maschile), sulla base delle pulsioni dell'io (estremizzazione dei diritti soggettivi). Questa teoria ha fatto arrabbiare chi si ritiene cattolico liberale, eccependo l'insegnamento di alcuni studiosi americani (Rodney Stark), i quali ritengono che il capitalismo nasca non dal calvinismo (Max Weber), ma dal cristianesimo stesso, e che Gesù non fosse mai stato anticapitalista. La prova? La parabola dei talenti. I talenti che l'uomo deve moltiplicare, esattamente come il profitto, il capitale.

Ma a parte, la facile obiezione sulla non coincidenza e sovrapposizione tra categorie umane e categorie divine (è un punto dirimente: Gesù non è mai stato contro nessuno, semmai pro), ritengo che la parabola dei talenti si riferisca ad altre cose donateci da Dio, ad altri doni superiori (spirituali) da moltiplicare (non il capitale), come ad esempio, la virtù, il bene, l'intelligenza, la bellezza, l'amore. E se il tema è il denaro, credo che la scelta tra Dio e Mammona sia estremamente chiara (il che non vuol dire che il cristiano debba esaltare il pauperismo o la fuga dal mondo). Infatti, Giovanna Jacob ci ricorda la definizione del capitalismo: il capitale che, opportunamente reinvestito in beni e servizi, moltiplica se stesso…come unica condizione per fare la felicità degli individui e portare benessere tra gli uomini.

Decodificato, vuol dire che il centro, il soggetto in questione non è il bene, o l'uomo, ma il capitale, che prima vengono le strutture (le condizioni materiali da governare e soddisfare), poi le sovrastrutture (dimensioni spirituali, morali, religiose, esistenziali, la felicità, come punto d'arrivo). Ben inteso, tutte ricette legittime e giustificate storicamente dalla povertà che c'era nei secoli passati e non solo (la fame nel mondo, la crisi economica, la povertà sono argomenti attuali); ma questo è Karl Marx, questo è materialismo storico (il primato dell'economia) che unisce sia il pensiero liberale, sia il pensiero marxista, in quanto risalenti tutti e due all'Illuminismo (le cui origini scaturiscono dal Rinascimento; da quando l'uomo ha cominciato progressivamente ad affrancarsi da Dio, dalla Verità, dal dogma, dalla teologia, divenendo di fatto uomo-Dio); valori risalenti alla Rivoluzione francese (i due filoni cugini, quello liberale del 1789, e quello giacobino di Robespierre, successivo al 1792), per approdare nella Rivoluzione comunista del 1917.

Cos'hanno in comune liberalismo e comunismo? Apriamo un dibattito in casa cattolica. Abbiamo detto, il primato dell'economia, il concetto di proprietà (pubblica, per il comunismo; privata, per il liberalismo), concetto che solo Proudhon ha abolito; e l'egemonia di classe (la borghesia, per il pensiero liberare; il proletariato, per il pensiero comunista).

Torniamo al punto: solo la ricchezza, il capitale (moltiplicato) assicurano il bene? Ecco la risposta: “prima e dopo” l'economia, ci deve essere qualcosa che regola e migliora l'economia. Si chiama “primato della politica” e aggiungerei della morale.

Confutiamo un luogo comune che oggi è diventato un Vangelo rovesciato: il mercato, il profitto, l'economia, sarebbero neutri, una sorta di ideologia universale, religiosa, indiscutibile. Che lascerebbe ai singoli la libertà di scegliere. Assolutamente no: l'economia non è neutra, necessita di regole, leggi e concezioni di vita. A monte e a valle. I cattolici, su questo punto si sono fatti mettere nell'angolo. Non possono parlare di Verità (anche prima della libertà), pena l'accusa di teorizzare uno Stato etico o confessionale.

Quindi, “prima e dopo” l'economia, il profitto, il capitale, ci deve essere una comunità organizzata secondo regole, leggi, valori. Cioè, una polis, una res-publica, uno Stato, che li deve orientare verso un principio, un obiettivo superiore al capitale, al profitto, al mercato: il bene comune, l'interesse generale, l'equità, la giustizia sociale, la sussidiarietà, la tutela dei deboli e dei poveri (sono i cardini della dottrina sociale della Chiesa). Il capitalista, che magari ha raccolto il suo talento di intelligenza imprenditoriale, non può farlo. Per Dna. Ha il compito e la competenze per creare, produrre ricchezza, ma non di stabilire le regole per la società, né di distribuire la ricchezza (ruolo che spetta allo Stato, all'entità pubblica). Il pensiero liberale vede come fumo negli occhi tale ipotesi, ma non pensa allo Stato, pensa allo statalismo (degenerazione partitica e politica dello Stato), pensa all'assistenzialismo (degenerazione partitica del Welfare), pensa allo Stato-deificato (comunismo, nazismo, fascismo); da qui le varie ricette sulla deregulation e sulle privatizzazioni, ormai ricette considerate oggettive.

Evidentemente Giovanna Jacob ha in mente il comportamento virtuoso degli Olivetti o dei Ferrero. Uomini straordinari, individualmente cattolici, ma comunque all'interno di un meccanismo legato al profitto (pena, la morte dell'azienda), che hanno goduto di legami, di freni morali, di vincoli familiari e territoriali, grazie a una società per riflesso ancora cristiana, come è stata quella italiana degli Anni '50 e '60. Ora quella società non esiste più: sommersa dal relativismo, dall'individualismo edonista, dal materialismo, dal nichilismo, dal '68, dal berlusconismo, dalla regressione culturale, e dall'uso compulsivo della realtà virtuale. Oggi l'imprenditore, se sopravvive alle tasse, alla burocrazia, pensa unicamente al profitto. Sbagliato, inoltre, considerare la famiglia come il primo esempio di capitalismo: nella famiglia si sperimenta la sussidiarietà (la protezione dei più deboli, il primato della comunità sull'individuo), non il profitto (semmai il risparmio).

Su tali punti i cattolici dovrebbero fare un passo in avanti, a livello di forma-mentis: i cattolici-liberali si incartano nel mito della responsabilità individuale, stentano a concepire la dimensione pubblica, da qui la mancanza assoluta di una cultura di governo; e i cattolici-progressisti si avventurano eccessivamente in utopie pauperiste troppo terrene. Cerchiamo di inaugurare, per l'avvenire, l'era dei cattolici e basta.

De Benoist, a proposito del pensiero gender, ci ha fornito una nuova chiave di lettura. Non morale, dottrinaria o religiosa, ma economica. Quando l'economia non si limita a gestire le necessità, ma si orienta verso la gestione del desiderio, il risultato è che si passa inesorabilmente (il desiderio per sua natura è illimitato), dall'economia di mercato alla società di mercato; si passa dal mercato al supermercato (l'annullamento di ogni legame familiare, sociale, identitario, storico, culturale, biologico, sessuale, nel nome e nel segno dell'homo oeconomicus): non è questa la cornice del pensiero gender? La società Frankenstein? Esiste un desiderio limitato? No. Lo dimostrano pure i desideri indotti, artificiali (il consumismo), creati a tavolino dalla macchina economica, produttiva, pubblicitaria del capitalismo. Quanto le nostre scelte sono vere e non eterodirette, fabbricate? Il capitale, per sopravvivere, ha bisogno di consumatori continui, altrimenti non si auto-genera più, non si auto-riproduce. E implode.

Quanta ricchezza, invece, nel messaggio delle Beatitudini, indicazione di Gesù, per vivere un vita felice, una vita sobria, consapevole di un'altra ricchezza…spirituale.

Ultima domanda: lo Stato può ragionare da azienda? No. Ecco il motivo per cui non può essere unicamente governato dalla logica del capitalista-imprenditore. Settori come la sanità, l'istruzione, il diritto alla casa, possono essere vincolati al profitto (un conto è la gestione dei beni e servizi, che può pure rispondere a criteri imprenditoriali, un conto è la mission)? Settori nevralgici dello Stato (sicurezza, esteri, lavoro, energia) possono finire in mano ai privati o peggio, alle multinazionali estere? Il made in Italy, settori identitari come l'agricoltura, l'agroalimentare, possono essere acquistati e svenduti, in omaggio al mercato globale?

Insomma, può esistere, naturalmente attualizzato, una sorta di nuovo controllo pubblico dell'economia? Parlo del primato del bene comune, dell'interesse generale? Niente di straordinario, era il pensiero di don Sturzo. Cerchiamo di andare avanti e non tornare indietro, dietro schemi superati. Ma ben vengano le polemiche e i dibattiti. Servono a crescere.

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