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Armin T. Wegner, un uomo contro due genocidi, l’armeno e l’Olocausto

Genocidio armeno - Armin T. Wegner

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Silvia Costantini - Aleteia - pubblicato il 30/04/15
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Gabriele Nissim pubblica la biografia dell’ufficiale tedesco che ha denunciato il massacro degli armeni e la follia di HitlerCosa può fare un uomo per opporsi alle atrocità di due genocidi? A questa domanda risponde l’ultima opera del giornalista e scrittore Gabriele Nissim, “La lettera a Hitler” (Le Scie, Mondadori), romanzo biografico su Armin T. Wegner (1886 — 1978), testimone oculare del genocidio armeno e degli anni bui dell’olocausto, in cui persero la vita milioni di innocenti.

(Archivio Famiglia Wegner)

Sono gli anni della prima guerra mondiale, tra 1915-1916, nel quadro dell'alleanza militare tra la Germania e la Turchia, quando il giovane Wegner, ufficiale tedesco, viene inviato in Medio Oriente come membro del servizio sanitario. Ed è qui, che Wegner si trova a vivere  in prima persona gli orrori del genocidio del popolo armeno. 

Ne rimane così profondamente colpito che, eludendo ogni controllo, anche a rischio della propria vita, scatta centinaia di fotografie nei campi dei deportati, raccoglie lettere che invia in Germania, scrive diari, raccoglie appunti e notazioni, riuscendo a far giungere parte del materiale in Germania e negli Stati Uniti. 
 

“Wegner non era votato a lottare contro i genocidi, ma ad amare la vita”, spiega Nissim “lui era un esploratore del mondo, un uomo che amava la vita, era curioso, un uomo contro i pregiudizi, ma trovatosi di fronte agli orrori della guerra, si è sentito chiamato a rispondere in prima persona, a prendere posizione, per raccontare e denunciare l’orrore di quanto visto”.

Scoperta la sua attività clandestina, viene espulso dalla Turchia e richiamato in Germania nel novembre del 1916. Ma, l’intrepido Wegner riesce a portare con sé  le lastre fotografiche delle immagini del genocidio del popolo armeno al quale aveva assistito impotente, adoperandosi per far conoscere in Germania la tragedia degli armeni. Organizza conferenze e dibattiti, pubblica lettere…

Nel 1919 invia una lettera aperta al Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, nella quale denuncia lo sterminio della nazione armena e auspica una patria per i sopravvissuti. 

“L’insegnamento più forte che possiamo trarre da questo coraggioso testimone del ‘900”, sottolinea l’autore,  “è la presa di posizione del singolo rispetto alle autorità: per lui inviare lettere di denuncia ai potenti, rappresenta l’assunzione di responsabilità del singolo. Le ingiustizie devono essere denunciate e affrontate, in prima persona”.

Nel 1933, Wegner scrive una lettera ad Adolf Hitler per protestare contro i comportamenti antiebraici e disumani del regime. Pagherà questa denuncia con il carcere.

“Ma, da questa esperienza personale Wegner  ragiona sul rapporto tra carnefici e vittime. Secondo lui, infatti, non si deve odiare chi ci ha inflitto del male, in questo senso lui crede nella responsabilità morale delle vittime a non odiare”, sottolinea Nissim.

Liberato, dopo varie peregrinazioni, si rifugia tra il 1936 e il 1937, in Italia, a Positano. Vivrà in Italia, a Roma e a Stromboli, sino alla fine dei suoi giorni, continuando a scrivere, ma senza mai accettare la sua condizione di esiliato.

“Quello che maggiormente colpisce della figura di Wegner”, spiega Gabriele Nissim, “è che lui non incarna l’immagine dell’eroe perfetto, ma è una persona alla continua ricerca. Ha un animo pacifista, ma si sente un pacifista deluso e non per questo smetterà mai di offrire il suo contributo intellettuale per la giustizia, condannando ogni guerra. Ragiona sempre attraverso la sua esperienza e il suo pensiero è personale, non dogmatico”.

“E’ coerente nel fatto di porsi domande: è una persona che pensa —aggiunge l’autore dell’opera—. E questa continua ricerca, lo porta ad un pensiero non lineare, ma a zig zag”. 

Per il suo impegno nel 1968 viene insignito del titolo di "Giusto" dallo Yad Vashem in Israele e in riconoscimento del suo aiuto al popolo armeno è stato insignito con l'ordine di San Gregorio, a Yerevan, capitale dell'Armenia Caucasica, dove una strada porta il suo nome.

(Archivio Famiglia Wegner)

Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo (Gariwo.net), promotore della Giornata dei Giusti (riconosciuta dal Parlamento Europeo), celebrata il 6 marzo, esplora la vicenda di questo eroe solitario, catapultando il lettore nella visione originale di un uomo che ha saputo guardare alla storia con coraggio, alla ricerca del bene.
 

* * *

Pubblichiamo un frammento del libro “La lettera a Hitler – Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento”, di Gabriele Nissim (Le Scie-Mondadori). Il brano raccoglie la conversazione tra Wegner e la sua segretaria, anni dopo avere scritto la lettera a Hitler per la quale fu arrestato e torturato. Il protagonista racconta le violenze subite e le ferite dell’anima che quest’esperienza gli aveva lasciato per sempre.

[…]  «Ma se lei ha protestato non si è forse salvato?»

«No, perché una frusta ha cambiato la mia vita. Pochi giorni dopo quella lettera sono stato arrestato dalla polizia segreta. Mi hanno portato in un sotterraneo e mi hanno sdraiato su un tavolo dove mi hanno quasi fatto uscire gli arti dalle articolazioni. Poi otto uomini mi hanno messo un bavaglio sulla bocca, perché non si sentissero le urla e mi hanno quasi ammazzato di botte. Quando hanno finito il loro lavoro e mi sono rialzato mi hanno detto: ora non scriverai più niente contro di noi. 

«Hanno avuto ragione. In tutti questi anni, dopo una lunga odissea attraverso le prigioni e i campi di filo spinato fino alla libertà e al mio arrivo in Italia, ho sempre taciuto. Mi sono sempre vergognato del mio popolo e di me stesso.» 

«Capisco la vergogna dei tedeschi, ma non capisco la sua.» 

«Quella frusta era velenosa e aveva la forma di un serpente. Non mi ha impresso soltanto dei solchi nella carne, ma anche nella mia anima. E vuole sapere come? La viltà dei nostri aguzzini era molto raffinata. Nessuno poteva uscire da quel campo senza essere sporcato a sua volta. Fuori dal campo siamo riusciti a rimanere puri, ma poi dentro a furia di ricevere botte siamo stati costretti a piegarci al saluto del Terzo Reich. E chi lo ha fatto una volta, ha poi continuato a farlo.» 

«Allora anche lei è diventato un impuro?» 

«Questa è un’altra storia. Il grande problema è che tutti noi non possiamo liberarci dalla colpa. Non possiamo dire che sono stati altri a commettere dei crimini terribili, perché siamo stati tutti noi. Noi facciamo parte della Germania che ci ha resi responsabili di questi crimini. Non posso sopportare coloro che pensano di potersi liberare del debito di sangue di un popolo. Provo disagio quando vedo un tedesco che si batte sul petto per affermare la sua innocenza, anche se sostiene di aver preso una posizione contro il nazismo. Nessun comportamento, per quanto possa essere stato puro, lo può rendere libero. I poeti dei tempi passati lo avevano ben compreso quando declamavano che la massima colpa dell’uomo è quella di essere nato. E io sono nato tedesco.» 

«Sì, ma era un tedesco diverso da lei quello che la frustava, dopo la sua lettera a Hitler.» 

«Era questo il mio grande dilemma. Io provavo pena per chi mi torturava perché ero consapevole dell’abisso morale in cui si stava dirigendo una nazione intera e ho fatto tanta fatica ad accettare le sevizie che subivo da parte della mia stessa gente. Come era possibile che si comportassero in quel modo, loro che erano tedeschi come me?» 

«Ma allora lei non li odiava? Li compativa, forse.» 

«Avevo pensato alle frustate che ricevevo da mio padre quando ero un bambino. Era per me penoso oltre che doloroso. Ma come potevo odiare mio padre che mi aveva generato e mi aveva dato il suo nome? Non lo faceva forse per il mio bene? Sentivo negli aguzzini qualche cosa di paterno. La Bibbia non dice forse che Dio castiga chi ama? Io ero figlio di quella nazione ed ero disposto a perdonarli con lo stesso sentimento che avevo provato per mio padre. Erano parte di me, come potevo provare rancore? Era una situazione schizofrenica. Sentivo nello stesso tempo pena, rabbia e compassione.» 

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