Come amare i fratelli imbevuti dai falsi miti del progresso?
Tre sono le canzoni che prendo a prestito per gettare la luce sulla vicenda, sempre che poi io riesca a cogliere il riflesso – ma qui cado in piedi perché conto sull'aiuto dei lettori! – e tirare fuori un piano d'azione utile.
La prima è “L'estraneo (infiniti ritorni)” che disvela come divellere questa resistenza ideologica: in una sera di Gerusalemme il primo incontro con Dio produce fastidio, irritazione:
Ho visto un Dio che mi veniva incontro
e ho provato tutto per scappare,
ma lui insisteva: "Dài, fatti salvare,
ho tanto amore, amore, amore…".
Dio insiste, con tale coraggio da sembrare folle in questa volontà di salvare tutti:
E in un cortile di Gerusalemme
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente…
E' la morte che dà senso alla vita, come dicevamo tempo fa. Ma il processo di conversione di abbandono dell'io, non è lineare, non è semplice. Si torna indietro perché lasciare la zavorra dei propri piaceri è difficile, è come un elastico fissato alla schiena: ti lascia credere di esserti liberato dalla gabbia e poi ti tira di nuovo a sé con un abbraccio ancora più violento.
Così incontri di nuovo Dio in treno e di nuovo lui vuole aiutarti, e parte dalla realtà a raccontarti il mondo, ma tu non ci stai, vuoi vivere la vita come ti pare:
Lasciami
Questo sogno disperato
Di esser uomo,
Lasciami
Quest'orgoglio smisurato
Di esser solo un uomo:
Perdonami, Signore,
Ma io scendo qua,
Alla stazione di Zima.
Con te, Signore
è tutto così grande,
Così spaventosamente grande,
Che non è mio, non fa per me
Questo è il punto chiave: la misericordia si effonde su tutti, ma resta solo su coloro che la accolgono. E per accoglierla bisogna sentirsi peccatori, o anche solo desiderosi di una vita “spaventosamente grande”. Finché te ne vuoi stare chiuso dentro alla tua piccolezza – o meschinità? – finché resti alla stazione di Zima, il perdono non potrà abbracciati, perché Dio non può salvarti senza di te, senza il tuo consenso.
Questo è il mondo di oggi. Il mondo che rifiuta Dio perché non vuole sentirsi per nulla in colpa, il mondo in cui nessuno vuole essere colpevole e quindi abroga la legge e distorce la natura. E come fai a dialogare con gente così? Come è possibile un dialogo con chi ha già deciso che tu sbagli perché hai una verità, perché la verità non esiste, anzi tutti ne hanno una, tutti sono charlie, tutti tranne te che ritieni di avere una verità vera, perché allora dai fastidio, allora sei intollerante? Vale la pena dialogare con questa gente? O non è un dare loro un palcoscenico per confondere i semplici? Stiamo aiutando il demonio illudendoci di dialogare?
Eh sì, è vero: sono intollerante, come ha scritto in poche righe da premio Pulitzer, da premio Benedetto XVI ancora meglio, don Fabio Bartoli qui sabato scorso.
Sono intollerante perché amo e non voglio dare ragione solo per una falsa cortesia, per dimostrare – soprattutto a me stesso e quelli della mia parte – che ti sopporto (perché questo vuol dire tollerare, implica una dimensione superiore, una spocchia appena celata, una sufficienza annoiata). Invece io voglio capire che cosa sei e in che cosa credi, per amarti come sei, e proprio perché ti amo raccontarti la verità, mostrarti la piaga, aiutarti a curarla.
Come fai ad amarli questi qui che ti sputano in faccia appena indichi la piaga? Che ti danno del pazzo perché dici di vederla, toccarla quell'ulcera, di conoscerne le conseguenze? Come si ama in un ospedale da campo? Ecco come risponde Vecchioni, tre versi da tre canzoni:
Pazienza, ci vuole pazienza e attesa del momento giusto.
E il mio vecchio che sa la verità
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano suo figlio tornerà.
Ma non basta: bisogna andare incontro con questa pazienza.
Guardami,
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono…
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.
Certo ci vuole un cuore che aspetti, che Lo aspetti, e allora per prepararlo questo cuore bisogna saper amare in molti modi.
“Forse non lo sai ma pure questo è amore” canta il professore in “Stranamore”.
E se vai a vedere bene in tutti (beh quasi tutti diciamo) i quadretti di questa delicata canzone del 1978 l'amore è gratuità, è donazione, è coraggio, è qualche cosa di più grande di me, che va oltre l'egoismo, ben oltre: che si tratti di avere a cuore un ideale o una persona, una figlia o un coniuge, c'è questa dimensione di sacrificio, che non è se non rendere sacra una relazione che conta. Ben altro che il “love is love” con cui i falsi miti oggi sdoganano ogni capriccio e voglia.
Il punto però non è l'annuncio della verità, non solo: la sfida che ci viene chiesta è la sintesi, come i tre ultimi Papi, che in questa tempesta devono governare non solo la barca di Pietro ma quella dell'umanità, la sintesi di fare la verità nella carità.
Come sappiamo amare noi tutti questi fratelli imbevuti dei falsi miti, accecati dai profeti di sventura, illusi che quello che non è se non l'applicazione del loro egoismo sia una forma nuova di amore, trascinati da profeti che fanno credere loro che quella roba lì sia amore?
Non lo so. Non lo so perché sono anche io qui a lottare con il mio egoismo, con la voglia di lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita, e rintanarmi nel mio buco come i ramarri che ritirano la testa quando è buio, quando è tardi, quando è freddo, quando tutto sembra caderti addosso. E chi me lo fa fare di amare? Invece Lui insiste, la carità di Cristo ci spinge, ci trascina, ci chiama fuori, ci impone – un dovere d'amore – di metterci la faccia. Come non lo so, so che devo amare.
E se qualcuno mi aiuta, ci aiuta, a capire come, prometto che lo abbraccio.