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Il Papa delle prime volte che si scontrò con la Curia

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 25/04/15
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“Il polacco”, lo chiamavano alcuni monsignori, spregiativamente, nei primi tempiAbbiamo da poco ricordato i dieci anni dalla sua scomparsa. E il 27 aprile sarà un anno dalla solenne iscrizione nell’albo dei Santi. Sono le date stesse, sono gli anniversari, a rievocare un Karol Wojtyla ormai anziano, sofferente, che si portava dentro un male tremendo, e comunque è andato incontro alla morte con serenità, abbandonandosi nelle braccia del Padre.

E poi, un Karol Wojtyla segnato da una santità che ne ha attraversato l’intera esistenza. Rasentando l’eroismo, se non il martirio, al momento dell’attentato; o assumendo una dimensione quasi mistica, nella fase più acuta della malattia; ma che, vissuta nella quotidianità, nel nascondimento, negli impegni grandi e piccoli di ogni giorno, era anche, questa santità, incredibilmente “normale”.

C’è però un altro modo per rievocare Giovanni Paolo II. Anzitutto, attraverso le immagini dell’inizio del suo pontificato Immagini forse ormai lontane per tanta gente, se non addirittura sconosciute per le nuove generazioni; ma che sono indispensabili, decisive, per capire quel che significò l’arrivo sulla cattedra di Pietro del primo Papa non italiano dopo 456 anni.

Era un Papa slavo, polacco, testimone di un’altra visione del mondo, della storia, e di una religiosità rimasta fino ad allora ai margini. Così com’era portatore di una concezione del sacerdozio molto poco clericale, di una pietà popolare in piena rinascita, e di una presenza della Chiesa nella società ma senza più le tentazioni integralistiche di un tempo.

Da giovane, aveva fatto l’attore, aveva lavorato in una miniera. Veniva da quello che era allora l’impero comunista. Dopo aver vissuto in prima persona la Seconda guerra mondiale, e dopo aver fatto l’esperienza diretta dell’altro totalitarismo, quello nazista, che aveva sconvolto il XX secolo. Non solo, ma aveva vissuto da vicino anche la Shoah; molti dei suoi amici ebrei erano scomparsi nei campi di sterminio.

Appena eletto, ebbe il primo scontro con il mondo curiale (“il polacco”, lo chiamavano alcuni monsignori, spregiativamente, nei primi tempi), poiché il capo cerimoniere, secondo la prassi, non voleva assolutamente che parlasse affacciandosi dalla loggia della basilica vaticana. Lui invece parlò, e chiese alla folla di correggerlo se avesse fatto qualche sbaglio in italiano. Si presentò come “vescovo di Roma”, e non come Papa. Voleva essere il pastore di tutti, non un monarca.

Insomma, a volerlo ricordare pur molto brevemente, era un uomo di Dio, un uomo di grande fede, di grande preghiera. Un uomo libero interiormente, distaccato dalle cose del mondo, e senza timori. “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”, disse durante la Messa inaugurale del pontificato. Era un uomo pieno dei doni della profezia, capace di fustigare anche i più potenti, i più minacciosi. Un uomo umile, semplice, puro, trasparente, che sapeva trovarsi bene proprio con i più piccoli.

E’ stato un Papa che, per come ha testimoniato la radicalità evangelica, ha saputo mostrare il volto umano di Dio: il Dio della pace, della misericordia, della giustizia, della gioia, della solidarietà. Un Papa che, richiamandosi alla sapienza divina, è riuscito a proporre un punto di convergenza nel quale tutti gli uomini, riscoprendosi figli di uno stesso Padre, si sono ritrovati fratelli: al di là delle divisioni ideologiche, culturali, geografiche, razziali, e perfino religiose. “L’altro mi appartiene”, scrisse in un suo documento.

E’ stato il Papa delle prime volte. Il Papa, come si diceva, primo non italiano dopo quasi mezzo millennio. Il Papa che per primo è entrato in una sinagoga e in una moschea. Il Papa che per la prima volta ha riunito in preghiera per la pace i rappresentanti di tutte le Chiese e le religioni. Il Papa che per la prima volta ha convocato attorno a sé milioni di giovani. Il Papa che, con i suoi viaggi, ha fatto per almeno sette volte il giro della terra.

E’ stato il Papa che, con la stessa forza, ha difeso la verità del Vangelo e la dignità dell’uomo, di ogni uomo. Il Papa che si è battuto contro ogni guerra, contro ogni ingiustizia. Il Papa che, come ha contribuito alla caduta del Muro, al tramonto del comunismo, s’è poi scagliato contro il capitalismo selvaggio, senza regole. Il Papa che ha rischiato di morire, proprio a causa del suo impegno a favore di ogni essere umano. Ed è rimasto solo, è stato lasciato solo, anche dall’Occidente, anche da non pochi settori cattolici, nella battaglia che ha combattuto in difesa della vita e della famiglia.

E’ stato un Papa che ha lasciato, grazie al Giubileo del Duemila, una Chiesa profondamente purificata. Una Chiesa, nella scia del Concilio, più evangelica, più biblica, e più carismatica, più laicale, con una sorprendente fioritura di movimenti e di nuovi protagonisti, in particolare i giovani e le donne. Una Chiesa ormai pienamente inserita nel dialogo ecumenico e in quello interreligioso. Una Chiesa con una diffusione geografica e culturale mai prima conosciuta. Con una autorità morale a livello mondiale. Con una presenza costante, e un ruolo non poche volte decisivo, specialmente nel tenere accesa la fiamma della speranza, sia nelle vicende dei popoli sia nei processi della vita internazionale.

Questa la Chiesa che Giovanni Paolo II ha lasciato in eredità a Benedetto XVI e, ora, nel segno comune della Misericordia, a Francesco.

Il 27 aprile sarà un anno dalla sua santificazione. Ma, in lui, è stato anche esaltato il suo popolo. Il popolo di quanti – non solo cattolici, non solo cristiani – lo hanno amato e si sono identificati in Lui, o che ispirandosi a Lui hanno deciso di cominciare una nuova vita. O almeno, di cominciare a guardare la vita con occhi nuovi. Con un cuore nuovo.

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