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Attenzione ai “ruffiani di Dio”

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Ciudad Nueva - pubblicato il 24/04/15
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È impressionante la smisurata quantità di teologi e filosofi moralisti che hanno usato e usano Dio (la loro idea di Dio)Molti economisti, filosofi e intellettuali elaborano teorie che legittimano la miseria del mondo. Ce ne parlano come se fosse una conseguenza dell'oziosità dei poveri, forse inscritta nei loro geni. Non ascoltano Giobbe né la sua grande richiesta di spiegazioni, ma lo emarginano e lo ridicolizzano. E quando qualcuno cerca di difendere la verità dei poveri e le loro ragioni, si vede circondato dai mille “amici di Giobbe” che lo condannano e si fanno beffe di lui. I falsi amici di Giobbe non sono scomparsi, e con le loro ideologie continuano a umiliare, disprezzare e condannare i poveri.

L'accusa di Zofar, il terzo “amico”, è chiara e spietata: Giobbe è un falso innocente, un fanfarone che nasconde i suoi peccati sotto una cortina di parole. “Allora Zofar il Naamatita prese la parola e disse: A tante parole non si darà risposta? O il loquace dovrà aver ragione?” (11,1-2). Giobbe risponde: “È vero, sì, che voi siete la voce del popolo e la sapienza morirà con voi! Anch'io però ho senno come voi, e non sono da meno di voi” (12, 2). Giobbe vuole risposte nuove e diverse da Dio. Quelle dei teologi consumatori di saggezza non gli servono: “Quel che sapete voi, lo so anch'io; 
non sono da meno di voi. Ma io all'Onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare rimostranze” (13,2-3). Vuole sentire la versione dei fatti direttamente da Dio. Non vuole ascoltare i suoi difensori d'ufficio. Vuole sentire la voce dell'imputato.

Zofar, per celebrare l'infinita e insondabile saggezza di Dio, aggredisce, condanna e umilia l'uomo Giobbe. Giobbe, invece, resta fedele alla terra, totalmente solidale con l'umanità (con Adamo, il terrestre). Non loda Dio contro l'uomo, non è un ruffiano. Oggi come ieri, invece, una legione di ruffiani di Dio, come Zofar e gli altri amici, difende Dio per lodare se stessi, senza amare davvero né Dio né gli uomini.

Per difendere Dio, i tre amici offendono l'uomo e negano l'evidenza (conoscono Giobbe e sanno che è giusto). La loro fredda teologia fatta di teoremi loda Dio per lodare se stessa. È ideologia e quindi idolatria. Al contrario, ogni teologia non ideologica è anzitutto non umanesimo: parla a Dio bene dell'uomo piuttosto che parlare all'uomo bene di Dio. La verità, la bontà e la bellezza divine non possono essere difese contro la verità, la bellezza e la bontà umane. E chi agisce così nega l'umanità, la terra e Dio.

L'esperienza concreta e incarnata di Giobbe, il giusto ingiustamente infelice, è il primo dato della realtà che Zofar dovrebbe prendere come punto di partenza. Come tutti i falsi profeti e i falsi saggi, invece, difende Dio, che non ne ha bisogno, per salvare se stesso e la sua “verità” teologica. I dialoghi tra Giobbe e i suoi amici sono una critica alla religiosità nemica dell'uomo (e di Dio), alle ideologie, alle filosofie e alla religione ridotta ad etica.

Giobbe denuncia tutti i moralisti, che non vedono il mondo a partire dalla montagna di letame e diventano aggressivi come Zofar. Ripercorrendo la storia e il presente, risulta impressionante la smisurata quantità di teologi e filosofi moralisti che hanno usato e usano Dio (la loro idea di Dio) per costruire una piramide, all'unico scopo di collocarsi in cima, al fianco di Dio o perfino al di sopra di lui (in quanto suoi architetti e costruttori). Il vero teologo è quindi Giobbe, che chiede a Dio di “svegliarsi” per essere all'altezza della sofferenza del mondo.

Dalla meditazione dei capitoli, che formano il cuore del libro di Giobbe, scopriamo che l'uomo chiamato Giobbe è un simbolo di molte realtà, tutte decisive.

In primo luogo ci rivela alcune dimensioni essenziali del mistero della verità. La vittima, il povero, ha una via privilegiata di accesso alla saggezza, può accedere a una verità più vera. Quando raggiungiamo la condizione umana estrema, quando tutti i ponti sono caduti dietro di noi e davanti non vediamo alcuna terra promessa, bisogna solo cercare la verità per la verità.

E molte volte la troviamo, o meglio ci troviamo immersi in essa. Questa verità, forse solo questa verità, permette che chi la possiede (o meglio chi ne è abitato) non la usi a suo vantaggio, non la consumi. È come quando scopriamo un fiore raro in montagna e anziché strapparlo per profumare e abbellire la nostra casa lo lasciamo nel prato di tutti. Questa gratuità è quella che fa sì che la verità, ogni verità, sia umile, casta, pura e coraggiosa. Agape.

Giobbe è un'icona assai elevata della fede biblica: una continua e incessante richiesta di verità. Se vogliamo che sia autentica, però, che sia amore, dobbiamo gridarla con Giobbe, seduti sulle montagne di letame della terra, senza mai smettere di sentirci fratelli e sorelle di tutti e di tutto.

Giobbe, tuttavia, è anche un paradigma di quanti ricevono una vera vocazione, sia essa religiosa, laica o artistica. Quando ci mettiamo in cammino seguendo la chiamata di una voce buona (che ci parla da fuori e da dentro), inevitabilmente arriva la tappa di Giobbe.

Arriva un momento in cui ci troviamo seduti sulla nostra spazzatura e su quella della città, e allora sentiamo nascere una necessità assoluta di verità circa la nostra storia, Dio e la nostra vita. Non ci conformiamo più a piccole verità e a risposte facili. Dopo aver dato tutto, si può e si deve anche chiedere tutto. Con Giobbe comprendiamo che le risposte alla nostra domanda di verità non sono per noi stessi, ma per tutti. Sorge così un'amicizia con gli uomini, le donne e la natura che non è frutto delle virtù, ma solo ed esclusivamente dono.

Il canto cosmico finale di Giobbe è splendido. Nella sua condizione di amante povero e disinteressato della verità, Giobbe sperimenta sulla sua carne ferita l'unità e la comunione con tutta la creazione. Include nel suo canto gli animali, la terra, le piante e la paglia. Li comprende, li ama e li affratella: “Ma interroga pure le bestie, perché ti ammaestrino, gli uccelli del cielo, perché ti informino, o i rettili della terra, perché ti istruiscano o i pesci del mare perché te lo faccian sapere” (12,7-8).

Dalla montagna di letame tutto si vede vivo, tutto parla, tutto prega. Ma per vedere questa vita e questa profonda preghiera dell'universo è necessario amare la verità per se stessa. In questo modo e solo così si arriva a intravedere una fraternità cosmica, e dal dolore del mondo fiorisce una comunione con l'erba, con l'usignolo, con la roccia, con la stella, con l'asino selvatico e con l'anziano che si spegne in un letto di ospedale. Così si impara a vedere e a contemplare l'innocenza e la verità degli animali e di ogni vita non umana.

Solo gli uomini sanno essere falsi, adulatori e idolatri; gli animali no, le piante nemmeno. Nel mondo vero di Giobbe c'è una verità più radicale del cosmo: le rocce, l'acqua, gli alberi, le radici e le foglie compongono l'unico canto della terra, che diventa parola nella gola roca ma vivissima di Giobbe. La fragilità dell'effimera condizione umana fa sì che sentiamo ancor di più Giobbe come creatura. La morte dell'uomo è più disperata di quella dell'albero (che disboscato può ancora rigermogliare e innovare 14,7), è la sorella povera della morte del fiume e del lago che si seccano per mancanza d'acqua (14,11). Tutta la creazione è vulnerabile e caduca (la montagna crolla, la roccia viene erosa dall'acqua – 14,19-20). Come tutto, come noi.

Questa vulnerabilità cosmica, però, questa specie di dolore universale per la sofferenza inspiegabile degli animali, delle piante e della terra, dà a Giobbe una base più solida per la sua disputa con Dio. Giobbe diventa il portavoce estremo e vero della terra, e chiede a Dio ragione di un mondo creato da lui in cui c'è troppa sofferenza senza motivo.

Ci troviamo di fronte a un'ammirevole reciprocità tra Giobbe e la natura: la natura offre a Giobbe una prova e una forza maggiore per il suo processo con Dio, ed egli presta la propria voce alla natura, chiedendo all'Eterno spiegazioni anche a nome delle rocce, degli animali e degli alberi. Ogni giorno, se sappiamo ascoltarla, dalle piante, dagli animali e dagli uomini si eleva una forte domanda di giustizia e di verità.

La presenza di Giobbe, o di qualcuno che porti bene la sua maschera nel dramma della vita, è imprescindibile per ogni persona, comunità, società o popolo che non voglia cadere nelle ideologie e quindi nei regimi, costruiti sempre in base a ragionamenti simili a quelli degli “amici di Giobbe”, che usano i grandi ideali e Dio stesso per opprimere i poveri e giustificare l'oppressione.

Al contrario, sono veri fratelli di Giobbe i (rari) poeti e artisti che, per vocazione e carisma, non hanno paura di portare fino al limite le proprie domande sulla verità della vita, senza fermarsi di fronte alla tentazione quasi invincibile di cercare e trovare un'altra consolazione diversa da quella della verità. Se nella vita non incontriamo Giobbe o un poeta amante come lui della nuda verità (come Leopardi, ad esempio), non riusciremo a liberarci delle ideologie e ci vedremo sottomessi a qualche idolo che dà risposte facili alle nostre ancor più facili domande.

Stiamo vivendo una profonda indigenza di grandi domande. Ci stiamo abituando rapidamente ai dialoghi dei salotti televisivi e dimentichiamo che siamo cresciuti chiedendo mille “perché” ai nostri genitori, e che per invecchiare bene dovremo essere capaci di tornare ai grandi “perché” dei bambini. Dio tornerà a parlarci quando sapremo interrogarlo, con Giobbe e come Giobbe, con nuove domande capaci di “svegliarlo”.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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