Molti dei naufraghi e dei migranti che attraversano il Mediterraneo provengono dalla Siriadi Rachele Marini
Proprio ieri per caso incontro un amico libanese in partenza per Aleppo. Lavora in uno degli organismi internazionali di assistenza alle vittime della guerra. Sarebbe dovuto decollare sabato, ma la situazione insicura ha fatto rimandare il volo. Non ci vediamo da tre anni. Ci siamo sentiti per skype, con qualche scarna mail e sempre in maniera cifrata perché ogni sua parola è sotto controllo. La festa del ritrovarsi si accompagna alla mestizia e all’angoscia per i 700-900 uomini, donne e bambini, che sono naufragati nel canale di Sicilia.
Tra loro tanti sono e immaginiamo siano siriani. Nessuno dei due osa dirlo, ma forse tra loro c’erano anche conoscenti cristiani e musulmani. Prima della guerra erano pochi i siriani che volevano lasciare il proprio Paese. Il regime era un problema, la libertà un’esigenza sempre più ampia che con fatica stava provandosi a prendere spazi di partecipazione, ma la guerra era un assurdo non contemplato da nessuno.
"Oggi siamo al non ritorno", mi confessa il mio amico. I cristiani lasciano Aleppo, non tornano a Homs perché pur libera è una città colabrodo, fantasma, e qui non mettono piede neppure i musulmani: l’esercito governativo sta prendendo tempo e precauzioni. Nessuno può permettersi che in mezzo agli sfollati inermi, decisi a rientrare in mezzo alle macerie, si nascondano militanti dell’Isis o fondamentalisti. Non si può rischiare.
Si fugge anche da Damasco. I razzi che cadono sulle case o sulle fermate del bus non sono semplici colpi di mortaio: sono bombe vere e proprie che fanno accartocciare i palazzi. Chi le fornisce? Da dove e come arrivano? Una famiglia due giorni fa è scampata alla morte per puro caso: erano nella confinante casa della vicina quando la loro è stata sventrata. E altri sentendo il rumore sono usciti di casa di corsa e solo con i vestiti addosso, mentre l’obiettivo si spostava sul loro condominio. “Si fugge dalla morte e ci si getta nuovamente nelle braccia della morte”, mi confida con mestizia il mio amico scorrendo con me le pagine dei giornali che illustrano i particolari più macabri delle ultime tragedie del Mediterraneo.
“Perché tu torni?”, gli chiedo. “Tanta gente quando ha saputo che tornavamo ad Aleppo ha deciso di restare. Siamo per loro un sostegno, ma in realtà sono anche loro un sostegno per noi. Sono maestri nella speranza e nella fede, perché nell’assurdo di questa guerra continuano ad essere costruttori di riconciliazione”. E qui diventa un fiume in piena di episodi, foto, testimonianze.
Una signora che ha appena perso il marito e che ha un figlio rifugiato in Italia ha rispolverato il suo passato di maestra per fare un corso di alfabetizzazione per mamme musulmane. Vengono sempre con i bambini perché i mariti, i pochi rimasti, cercano di continuare un’attività o si arrangiano con qualche lavoro di sopravvivenza. Tra queste donne c’è ne una che non perde una lezione. La sua scelta è dettata da un messaggio consegnato ad un giovane che è stato assassinato. Dopo mesi ha scoperto che in quel biglietto era scritta la condanna a morte di chiunque lo avesse tenuto in mano. “Se avessi saputo leggere – continua a ripetere – avrei risparmiato una vita”.
Si muore anche così ad Aleppo, per un biglietto di cui non si conosce il contenuto e si muore in maniera più cruenta nei campi alla periferia della capitale, nei quartieri delle città diventati tiro al bersaglio tra cecchini governativi e fondamentalisti. Si fugge da questo orrore. Si fugge perché si vuole vivere.